La Gilda delle Mani Inchiostrate (o degli scrittori)

[Suggerimento musicale per la lettura: Ludovico Einaudi_Divenire]

“Appoggi piede contro piede, scudo a scudo
il cimiero al cimiero, l’elmo all’elmo,
s’accosti, petto contro petto, e lotti col nemico
brandendo l’elsa della spada o l’asta.”
Tirteo, guerriero spartano

 

Ho avuto una intuizione mentre lavavo i pavimenti. Mi accade spesso.
Non di lavare i pavimenti, ma di avere intuizioni nei momenti di fatica fisica, in barba agli asceti e ai mistici puri.
Questa intuizione, dicevo,  è saltata fuori da un ricordo.
Mentre strizzavo lo straccio – chissà se esiste un collegamento – mi è tornata alla mente una bellissima intervista fatta ad Alan Moore[1] , nel dettaglio un piccolo passaggio, quello di quando dice – e lo riporto a parole mie, l’intervista completa la trovate qua – che gli scrittori che ci hanno preceduti formano tutti insieme, travalicando i limiti di spazio e di tempo, una sorta di famiglia, una comunità.

Remember that this tradition is glorious and noble, remember all the men and women who have accomplished things before you. That is the company, that you are hoping to keep
Una gilda, mi permetto di specificare io.

Non è la prima volta che ripenso a questo concetto. Mi è già capitato.
Soprattutto, mi torna in mente ogni volta che mi sento bloccata e il mio caro, vecchio Censore – di cui ho scritto qui – acquisisce forza, a discapito della mia scrittura.
In quei momenti, ripenso a questa “gilda”.
Rifletto sul fatto che in quel preciso istante, in questo preciso istante, ovunque nel mondo – al netto dei fusi orari, ça va sans dire – altre decine, centinaia, ma che dico: migliaia di scrittori sono seduti a una scrivania, a scrivere.
L’immagine mi strappa sempre, sempre, sempre un sorriso.

N. Gaiman scrive spesso a mano con penne stilografiche

N. Gaiman scrive spesso a mano con penne stilografiche

Con gli occhi della mente vedo Neil Gaiman che butta giù con la penna stilografica su uno dei soliti taccuini neri la sua prossima storia.
George R. R. Martin che si dispera davanti a un monitor bianco, lottando contro i suoi dubbi – come lui stesso ha affermato di fare, nonostante i suoi successi, nella parte finale di questo video dove intervista Stephen King. Lo stesso King che digita forsennatamente sulla tastiera del pc al suono della sua amata musica Metal, chiuso nel suo studiolo al secondo piano della sua villa nel Maine. O, senza andare lontano, i miei colleghi conosciuti durante il NaNoWriMoSerena Bianca De MatteisEster Manzini e tanti altri alle prese con una nuova opera.

Tutti insieme, appassionatamente, compresi quelli che non ci sono più: Charles Dickens, Fëdor Dostoevskij, Louisa May Alcott, Jack Kerouac, Umberto Eco, Gabriel García Márquez, Virginia Woolf e ancora e ancora, e tutti quelli di cui, vivi o morti, non conosco il nome, che non hanno mai pubblicato o che scrivono in lingue a me incomprensibili.
Tutti lì, testa bassa, a infilare una parola dietro l’altra. A combattere, come scrive Steven Pressfield nel suo saggio “The War of Art”, come guerrieri questa vera e propria guerra, senza esclusione di colpi.
Una lotta che è insieme con se stessi e con il mondo esterno.
Una guerra contro i pregiudizi, gli errori, la mancanza di tempo, i rimpianti e i rimorsi, la scarsa autostima, le bollette, l’età, le aspettative altrui, il ritiro costante di un lavoro solitario; insomma: l’abisso arcano e doloroso che precede qualsiasi atto creativo, compreso il parto, il più antico, naturale e necessario di tutti.
Una lotta che diventa logorante nella seconda fase della prima stesura che io, mutuando un termine dall’Opera alchemica, chiamo Nigredo – e di cui ho scritto qui.

La scrittura è una questione di autostima.
Dubitare di se stessi, del proprio valore, delle proprie capacità, pensieri, sentimenti, non aiuta di certo l’atto di esprimersi.
A chi interesserà mai quello che ho dentro?
A chi importerà leggere questa storia che è venuta a me in modi inaspettati – e sacri, io credo – e che mi affanno così tanto a rendere leggibile?
Ci vuole molta forza di carattere per trovare la costanza di rimanere seduti, giorno dopo giorno, stagione dopo stagione, alla stessa sedia, nel disperato tentativo di rendere intelligibili le figure confuse che si accavallano senza tregua nel proprio animo.
Per cercare di rendere nella corrotta forma scritta la perfezione delle visioni che si intravedono, come labili barlumi, dentro di noi.

Io non so se scrittori si nasca o si diventi.
Credo che siano possibili entrambi gli scenari.
Alcuni lo sono naturalmente e, nati sotto una buona stella, seguono la corrente sulla quale si trovano scivolando con naturalezza e grazia tra le onde.
Altri decidono di esserlo e, malgrado condizioni avverse, lottano e combattono in mare aperto contro i marosi e le tempeste reggendo saldamente il timone.
Le due situazioni non si escludono nemmeno vicendevolmente e, per alcuni, le cose si intrecciano in forme originali e sempre diverse.
Per quanto possano trattare lo stesso genere, avere la stessa cifra, stile o carattere simili, due scrittori non si assomigliano più di quanto non lo facciano  due fiocchi di neve.
Ognuno ha una storia propria, un percorso, un sogno, un obiettivo differenti.
In qualsiasi quantità siano mescolati questi ingredienti, e nonostante la varietà dei sapori e delle forme, una sola cosa è certa: tutti gli scrittori, indistintamente, hanno creduto, in un modo o nell’altro, nella propria visione, seguendola senza badare al prezzo da pagare, alla fatica, ai conflitti quotidiani o all’eremo volontario di questo lavoro solitario.
Aristotele diceva: “noi siamo quello che facciamo ripetutamente. Perciò l’eccellenza non è un’azione, ma un’abitudine”.
E se uno scrive tutti i giorni, pubblicato o meno, noto o meno, valevole – per la maggiore – o meno, allora è uno scrittore.
Quel qualcuno ha raccolto la sfida e, intrepido, ha inseguito quella visione come un cacciatore che insegue la sua preda dalla quale dipende la sua sopravvivenza.

Perciò mi rivolgo a chiunque legga questo articolo e si riconosca in queste parole, mentre scrolla verso il basso la pagina con le dita sporche di inchiostro, come le mie.
Sei nella mia squadra.
Chiunque tu sia, per qualsiasi ragione tu lo faccia – gioia, disperazione, sfida, necessità, divertimento, rivalsa, vocazione, impeto di follia e chi più ne ha più ne metta – voglio che tu sappia che ti comprendo dal profondo del mio cuore e che, nonostante il silenzio nel quale sei immerso – probabilmente proprio in questo stesso momento – e la solitudine che accompagna questo lavoro, non sei solo, perché io combatto accanto a te.

Tu e io, insieme ai fantasmi di coloro che ci hanno preceduti e a tutti gli altri scrittori viventi su questo meraviglioso e terribile pianeta che, giorno dopo giorno, stagione dopo stagione, combattono questa guerra.

Siamo la Gilda delle Mani Inchiostrate.
E siamo implacabili.

(Leggi la Promessa di una Mano Inchiostrata)

Un giorno imparerò a caricare le mie penne senza sporcarmi. Ma non è questo.

Un giorno imparerò a caricare le mie penne senza sporcarmi. Ma non è questo.

 


[1] : se vi piace Alan Moore, non perdete questa lunghissima e splendida intervista, sottotitolata in italiano

 

 

La prima stesura di un romanzo e L’ Opera al nero alchemica

[Suggerimento musicale per la lettura: The crow_soundtrack]

 
Questi primi, gelidi giorni di Dicembre mi si stanno snocciolando sul calendario uno dietro l’altro sotto l’egida del Corvo.
A dire il vero, è da ottobre che il Corvo mi si è appollaiato su una spalla, e mi gracchia nell’orecchio con quel suo verso così dolce.
Il punto è che, con mio grande disappunto, che temo dovrò sorbirmi il suo gracchiare per altri mesi. Forse per tutto l’inverno.

CORVO IMPERIALE - Raven - Corvus corax - Luogo: Cogne (AO) - Autore: Alvaro

CORVO IMPERIALE – Raven – Corvus corax – Luogo: Cogne (AO) – Autore: Alvaro

Ogni tanto mi piace trovare parallelismi tra quello che faccio e l’alchimia. Un’abitudine indegnamente mutuata da Jung (anch’egli sovente co-protagonista dei miei post) e dalla lettura entusiasta del suo Psicologia e alchimia[1].
In questo saggio lo psichiatra svizzero prova a spiegare come le fasi attraverso le quali avviene l’opus alchemicum corrispondano a quelle del “processo di individuazione”, cioè quel processo nel quale si prende consapevolezza della propria individualità e si scopre la propria vera essenza interiore.
Jung approfondì successivamente questa interessantissima tesi in Psicologia del transfert(1946), Saggi sull’alchimia (1948) e nel Mysterium Coniunctionis (1956).

Quando la sciatica mi costringe a letto, soprattutto con la canicola estiva, mi consolo con letture leggere

Quando la sciatica mi costringe a letto, soprattutto con la canicola estiva, mi consolo con letture leggere

Dicevo: ogni tanto mi capita di riconoscere concetti che collegano la scrittura a quella paccottiglia di conoscenze mistico-esoteriche che mi ritrovo, mio malgrado, in testa per aver divorato parecchi libercoli su tali argomenti. Spesso, di pessima qualità e dubbio contenuto, devo riconoscerlo, ma talvolta forieri di pietre focaie utili a far brillare qualche piccola, debole e fugace scintilla di intuizione.

Abitualmente, non dedico spazio scritto a queste mie congetture, che rimangono nel mondo iperuranico delle (mie) idee, ma di tanto in tanto ho fatto qualche strappo alla regola, come ad esempio in questo articolo sulle quattro parole del mago e la creazione artistica.
Così, dimostrando grande coerenza, strappo di nuovo la regola che mi sono data io stessa, e scrivo (poche righe, lo prometto), sui tre stadi in cui la “materia prima” (l’idea di una trama) mescolata a un cucc.no di zolfo, ½ l. di mercurio e un pizzico di sale, e riscaldata a fuoco vivace nella padella dell’atanor, si trasforma nella pagnotta filosofale.
E qualcuno si starà chiedendo, cosa diamine c’entra questo con la scrittura?
C’entra, c’entra.
Questi stadi (i principali sono tre) prendono il nome dal colore che la materia assume man mano che trasmuta.

All’inizio, quando la materia si dissolve, putrefacendosi, abbiamo La Nigredo (Opera al nero, rappresentata da un Corvo). Poi, la stessa passa alla fase successiva, in cui si purifica sublimandosi, chiamata Albedo (Opera al bianco, rappresentata da un Cigno), fino a quando non si ricompone e si fissa in una nuova struttura, migliore, che è la Rubedo (Opera al rosso, rappresentata da una Fenice).

Ora, io sfido qualsiasi scrittore a non raccontare la propria esperienza di scrittura e stesura di un romanzo che non passi da tutte e tre queste fasi.

Prima stesura.
Arriva un’idea, o un personaggio. Le/gli si appicciano sopra un paio di ostacoli, e si prova a immaginare come si può sviluppare/reagisce. Si abbozza una trama. Si iniziano a vomitare parole a caso, una dietro l’altra. E man mano che si procede, il personaggio prende vita, acquisisce spessore, vive di vita propria e sceglie cose che tu scrittore non hai previsto. Così, la struttura iniziale, si modifica. Spesso, dopo uno o due mesi di scrittura, i personaggi sembrano un po’ appassire. La trama non ci sembra più tanto coerente e, di pari passo, la nostra determinazione inizia a cedere. Sì, insomma, come scriveva Anton Čechov “Qualsiasi idiota può superare una crisi. È il quotidiano che ci logora”.

Continuare a scrivere nonostante le idee che si dissolvono e la nostra determinazione inizi a odorare di stantio, non è facile, e richiede una certa presenza di spirito. Le visioni che abbiamo in testa, che sembravano così brillanti o divertenti o drammatiche, sbiadiscono. Anzi, meglio: si dissolvono, putrefacendosi.

Eccola qui, l’Opera al Nero.

Eccola, la prima stesura di una trama, inizialmente lucidata a dovere e strutturata in un certo modo, che non ha proprio voglia di stare lì ferma e rigida, e si ribella stiracchiandosi e agitandosi.
Lo scrittore inesperto non lo aveva previsto e la sua volontà inizia a cedere sotto i colpi impietosi, ma ahimé inesorabili, della Nigredo.
Come dice Neil Gaiman: “Tutti sono capaci di iniziare un romanzo. Se sei uno scrittore, puoi anche finirlo”. È proprio a questo punto che, i più, abbandonano.

La nostra prima stesura muove i suoi traballanti passi sotto le ali del Corvo, tra i miasmi putrescenti della Nigredo.
Arrivare fino alla fine richiede qualità interiori sulle quali il buon Jung ha sprecato parecchi etti di carta.

Durante la revisione (seconda fase), il testo si sfoltisce. Si tagliano le parti noiose (si spera), si snelliscono i personaggi e si alleggeriscono le scene. Anche la sintassi perde le zavorre dei pensieri confusi della prima fase oscura. Si decide di riscrivere qualche parte (a volte interi capitoli) e di tagliare/aggiungere personaggi, dialoghi, o cambiare la voce narrante.

È l’Albedo. La revisione ha (o meglio, dovrebbe avere) il candore del Cigno.

E infine, ciò che si è deciso durante la purificazione della “materia prima” (la nostra storia, le nostre idee), viene fissato di nuovo, nella seconda stesura (ma facciamo anche nella terza, quarta, eccetera eccetera).
La trama si fissa, e ogni cosa trova il suo posto. L’idea iniziale non sembra così orrenda, con questo nuovo vestitino e il fiocco tra i capelli. Anzi: pare anche graziosa.

La seconda stesura è la Rubedo. La Fenice risorge dalle sue ceneri.

Sarà bello quel momento, ma non è oggi.
Oggi, ho il pennuto nero che mi artiglia la spalla e gracchia il suo verso stridulo dentro l’orecchio e dritto fino al cranio.
È in momenti come questi che fatico a non rinnegare la mia scelta etica vegetariana, resistendo per non mettergli le mani al collo e strozzarlo.
Non posso. È una fase obbligata e necessaria.
Devo soltanto resistere.
Giungerà il candido Cigno scivolando sulla pelle dell’acqua. Giungerà, con tutti i suoi problemi, le ansie da revisione e le insicurezze che si trascina dietro.
Oh, giungerà. Ma non è questo il giorno.
E dopo di lui, sorgerà la Fenice, con la sua disperata resistenza e il suo fulgore dorato striato di rosso.
Sorgerà, ma non è questo il giorno.
Uno dopo l’altro verranno a dare il cambio al Corvo.
E poi?
E poi niente, si ricomincia.

La Grande Opera non è nel risultato, ma soltanto nell’opus. Appunto.

Lui disapprova la procrastinazione (immagine presa dal web)

Lui disapprova la procrastinazione (immagine presa dal web)

E adesso scusate, ma devo proprio lasciarvi. Devo dar da mangiare al pennuto: un migliaio di parole almeno, o non la smetterà più di gracchiare.

 


[1] Jung Carl G, Psicologia e alchimia, Bollati Boringhieri (2006, XIV-552 p., ill., brossura)

 

Di NaNoWriMo e Guardiani della Soglia

[Suggerimento musicale per la lettura. The Hobbit: Misty Mountain Cold]

 
Sono reduce da una “competizione contro me stessa” che mi ha in parte sfiancata e in parte entusiasmata. Spesso le due cose accadevano contemporaneamente.

Ho partecipato al NaNoWriMo (e vinto: qui sotto ne fornisco la prova), che sta per “National Novel Writing Month”.

Attestato

Attestato

Si tratta di una sfida a cui partecipano centinaia di migliaia di persone in tutto il mondo.
In breve, si devono scrivere 50.000 parole di un romanzo in un mese.
Non si tratta di finirlo, o di scrivere un capolavoro: soltanto 50.000 parole di una informe bozza che potrebbe essere la larva da cui far sviluppare, con l’aggiunta di ulteriori parole e un paio di riscritture (facciamo anche tre o quattro), una farfalla.
Cosa si vince, se si arriva alla fine?
Quello che i monaci zen cercano di ottenere in anni di meditazione e preghiere: una vittoria su se stessi.

A parte sconti per applicazioni di scrittura, acquisto libri, eccetera, infatti, il contest ha l’unico obiettivo di dimostrare a noi stessi che possiamo farcela.
C’è un bel gruppo di sostegno su facebook e un colorato forum sul sito, dove altri NaNos come me si sono sfogati nei momenti di difficoltà, dubbio e stanchezza, ricevendo l’incoraggiamento degli altri concorrenti in un bell’ esempio di sportività tra scrittori.
Perché, diciamocelo, a scoraggiarci sono buoni tutti.
E i più bravi a farlo, siamo noi stessi.

Ho terminato la mia personale sfida, contro ogni mia previsione, con dieci giorni di anticipo. Nonostante gli spostamenti in lungo e in largo per l’Italia e le difficoltà oggettive che ho dovuto affrontare in questo freddo mese di Novembre, ce l’ho fatta.

L’ho fatto. Ne vado fiera.

Non importa se quello che ho scritto è illeggibile. E’ soltanto una prima stesura. Citando Hemingway “la prima bozza di qualsiasi cosa è merda”.
Concordo.
Scrivere è, infatti, riscrivere.

In questo mese di scrittura forsennata, ho notato un incremento delle mie ansie proporzionato al numero di parole buttate giù.
E più le combattevo, più loro aumentavano.
E più scrivevo, più loro aumentavano.
Soprattutto di sera.
Un paio di notti, confesso, non mi hanno fatto chiudere occhio.
Finché, una notte in cui mi tormentavano con accanita ferocia, ho avuto una illuminazione.
Che sciocca a non capirlo prima.
Subito dopo, sono crollata in un profondo sonno ristoratore.
Quello che ho capito è che più forza mettono loro nell’accanirsi contro di me, più io so di essere sulla strada giusta. E l’ho capito grazie a Joseph Campbell.

Le mie ansie avevano la forma di un Guardiano della Soglia.

Nel suo brillante lavoro “L’eroe dai mille volti”[1], Campbell sostiene che gli archetipi individuati da Jung (di cui era grande stimatore) condividono la struttura dei miti (delle leggende e delle fiabe) di ogni cultura del mondo.
E’ il monomito, come egli lo definisce, in cui ogni personaggio che ricalca un archetipo cambia nome e aspetto, ma mai funzione (un lavoro che fa il paio  con “Morfologia della fiaba” e “Le radici storiche dei racconti di magia” del formalista russo Vladimir Propp, di cui ho parlato brevemente qui).

Il Guardiano della Soglia è uno degli archetipi.
Come il nome stesso indica, difende un passaggio oltre il quale c’è esattamente ciò che noi desideriamo.
La sua caratteristica principale è quella di essere alimentato dalle paure di chi lo affronta: più abbiamo paura di lui, più diventa forte.

Come spezzare la catena?
Rudolf Steiner, filosofo e fondatore dell’Antroposofia, ce ne parla nel suo “La Scienza Occulta nelle sue linee generali“[2], dove dice che Il Guardiano viene superato solo quando si riesce a fargli assumere una forma più amichevole.

Il molliccio. Questa la capiranno solo i fan di Harry Potter.

Il molliccio. Questa la capiranno solo i fan di Harry Potter.

I Guardiani non sono lì per terrorizzarci senza un motivo. Come dicevo sopra, infatti, ogni archetipo ha una precisa funzione.
Essi ci proteggono da noi stessi, dai nostri fallimenti.

Julia Cameron ne “La via dell’artista”[3], lo chiama brillantemente “Il Censore”.
Il Censore ci sussurra frasi meravigliose quando meno ce lo aspettiamo, quando siamo in fila alla cassa del supermercato, laviamo i pavimenti o siamo sotto la doccia.
A me, sempre prima di addormentarmi.
Borbotta con la sua vocina: “Lo chiami scrivere quello? Dai, dimmi che è uno scherzo, su. Non conosci nemmeno la punteggiatura. Se non ce l’hai fatta fino ad adesso non ce la farai mai. Non sai nemmeno come si formatta un testo. Ehi, e la chiami trama quella schifezza immonda che hai buttato giù? Informe come un’anguilla. A nessuno interesserà ciò che scrivi. E poi, sei troppo vecchia per questa roba, non si campa d’aria. Dammi retta, getta la spugna.”

E la cosa interessante del Guardiano/Censore, è che lo fa per il nostro bene!

Sissignore: cerca di distruggerci per proteggerci. Interviene tutte quelle volte che usciamo dalla nostra comfort zone, quando ci dedichiamo alle cose che contano davvero per noi, che ci fanno sentire vivi, ma mettono a repentaglio la stabilità e l’equilibrio di ciò che abbiamo raggiunto.
Il Censore è inserito nell’area sinistra del cervello, quella dedicata alla sopravvivenza. E’ un residuo della parte incaricata di decidere se fosse sicuro per noi lasciare la foresta e andare fuori. Il nostro Guardiano/Censore confonde ogni nostro idea creativa con una bestia pericolosa. Le uniche cose che gli piacciono sono quelle che ha già visto prima. E per molte volte.

Cose sicure. La routine. La regolarità.
Il divano accogliente, la canottiera lana fuori e cotone dentro, il garage sotto casa, il caffè delle otto e il tè delle cinque.
Ascoltate il vostro Censore e vi dirà che qualsiasi cosa originale (e nuova) è sbagliata. E pericolosa. E che vi conviene non farla, se non volete rovinare la vostra vita.
Ma ciò è falso.
Qualsiasi cosa ci dica, non è mai, mai, mai, e ripeto mai (l’ho già detto, mai?) la verità.
Ma come neutralizzarlo? Come zittirlo? Si può sconfiggerlo?

Ho buone notizie. Si può fare.

Ovviamente ci vuole molta pratica, e una buona dose di pazienza.
E’ come un braccio di ferro tra uno che si allena da trent’ anni (o quant’è l’età della costruzione della nostra personalità) e uno che è appena nato (il nostro desiderio creativo, a cui non è mai stato dato sufficiente spazio).
Quando crediamo di averlo annichilito ecco che, per non essere riconosciuto, ritorna con un’altra forma.
Non è la scrittura il problema, dice, è quella lavatrice che non può proprio attendere. Ma cos’era quell’articolo scontato su Amazon che hai intravisto in un annuncio pubblicitario due mesi fa? E lavati quei capelli, per l’amor del cielo. Devi. Hai chiamato tua madre/fidanzato/amica del cuore? Si aspettano che tu lo faccia. Vuoi deluderli? Sei un’ingrata. E l’amico delle scuole elementari, eh? da quant’è che non lo senti? Perché non lo chiami adesso?

E se tutto ciò non dovesse bastare ecco che va a ripescare nella memoria un vecchio ricordo doloroso. Un rimpianto. O un senso di colpa (in verità, questi ultimi sono i suoi preferiti) per qualcosa accaduto cinque, dieci, quindici anni fa. Sentiti in colpa, dice. Soffri. Piangi. Fatti salire l’ansia ed espiaAdesso.
Tutto, purché tu metta giù quella maledetta penna!

È davvero un infame.

La Cameron suggerisce, tra i vari esercizi, di farne una caricatura da appendere di fronte alla nostra scrivania.
Un disegno da guardare ogni volta che apre quella bocca immonda per tirarci secchiate d’acqua fredda.
Ricordo che all’epoca, quando leggevo “La via dell’artista”, proprio sotto al disegno del mio personale Censore (che ha un dente solo e i brufoli sul naso), scrissi a mano “Non fai paura proprio a nessuno”.
In effetti, a posteriori, vi dirò: mi fa un po’ pena (e cercherò di ricordarmelo stasera quando, prima che io riesca a prendere sonno, mi sussurrerà le sue solite, gentili frasi di incoraggiamento).
Il Guardiano della Soglia è lì per verificare quanto, davvero, teniamo a qualcosa.

La sfinge di Tebe. Un altro simpatico Guardiano.

La sfinge di Tebe. Un altro simpatico Guardiano.

Il nostro desiderio è forte abbastanza da fornirci ciò che ci occorre per affrontare il Drago?
E non per ucciderlo (seppur brontolone, è sempre un nostro alleato, dopotutto), ma per rassicurarlo.
Ci mette alla prova: sapremo superarla?
Sonda la nostra volontà e, in un certo senso, la rinforza.
E più noi ci addentriamo nel reame dell’incerto, più lui tenta di impedirci di passare.
È un nemico solo all’apparenza.
Il Guardiano della Soglia, siamo noi. O meglio: è una parte di noi, i nostri demoni interiori. Le paure, le ferite, le debolezze.

Abbiatene cura, ha soltanto paura. Lo fa per proteggerci.

Joseph Campbelli dice che questa resistenza è una fonte d’energia. Il Guardiano va incorporato. E’ un’arma nelle nostre mani.
Un aspetto di noi con cui dobbiamo confrontarci e fare pace, una volta per tutte.
Se l’eroe ha la peggio col Guardiano, dice lo studioso, è soltanto perché non ha saputo abbandonare le sue illusioni.
Ed è al Guardiano che si riferisce Natalie Goldberg in “Scrivere Zen”[4] quando dice:
“Tenete la mano in movimento, non cancellate, non preoccupatevi dell’ortografia, della punteggiatura e della grammatica, perdete il controllo. Non pensate, non fatevi invischiare dalla logica, puntate alla giugulare. Se scrivendo viene fuori qualcosa che vi fa paura o vi fa sentire esposti, tuffatevici dentro. Probabilmente è carico di energia.”

Ma addomesticare un Drago non è cosa da tutti. Ci vuole tenacia, perseveranza, pazienza e una buona dose di follia.
E vi dirò di più: il divertimento è tutto lì.

Cosa mi ha dato dunque questo NaNoWriMo?
Oltre alla forza di lanciare qualche bistecca farcita di sedativo al Guardiano della Soglia così da permettermi di superare i cancelli senza timore, mi ha ricordato che, di qualsiasi cosa si tratti, se non costa niente farla, allora non vale la pena farla.

Sdentato, il mio Guardiano, e io. Ormai (quasi) buoni amici: mi porta dove nessun altro va

Sdentato, il mio Guardiano, e io. Ormai (quasi) buoni amici: mi porta dove nessun altro va

Buona sfida a tutti!

 


[1] Campbell J., L’Eroe dai mille volti, ed. Guanda (Marzo,  2000)
[2] Steiner R., La scienza occulta, Ed. Antroposofica Editrice (Aprile, 2005)
[3] Cameron G., La via dell’artista, ed. Longanesi (Gennaio, 1998)
[4]  Goldberg N., Scrivere zen, ed. Astrolabio Ubaldini, (1987)

“Come and See. You have the key” (India. Photobook. Photojournalism. Children. Noprofit.)

 [Suggerimento musicale per la lettura. Ennio Morricone: The Mission]

Pur praticando la Meditazione Universale della Scuola della Spiritualità, derivata dalla tradizione radhasoami della Sant Mat induista, non ho mai visitato nemmeno un tempio, o  passeggiato per le strade dell’India, nei suoi colori e tra la sua gente.
Ma ho un caro amico che ci è stato.
Si chiama Leo Fabbrizio, e ha una passione per i viaggi e la fotografia (è lui che mi ha fatto queste foto con il maestro Tonino e il Bibliomotocarro).

Una sera di Agosto mi ha raccontato di aver visitato il più grande Slum di Mumbai, nel Dharavi, per mezzo dell’associazione “Reality Gives” che, grazie a questo tour, raccoglie i fondi per promuovere iniziative a favore dei bambini svantaggiati che abitano lì.
Davanti a una tazza di tè ghiacciato, Leo mi ha raccontato quello che ha visto e vissuto e provato in quel viaggio straordinario.
Mi ha fatto vedere le foto che aveva scattato, mentre mi descriveva le loro povere condizioni di vita. Soprattutto, mi ha parlato dei bambini, dei loro sorrisi e dei loro occhi, brillanti come diamanti nella polvere.
Sono andata via da casa sua molte ore dopo, turbata e commossa.
È per questo che quando, qualche mese dopo, mi ha chiesto una mano per realizzare un progetto di crowdfunding e contribuire pragmaticamente a migliorare le cose, non ho potuto rifiutare. Insieme a un grafico e una traduttrice, ho aiutato con quello che so fare meglio: scrivere.
In una manciata di incontri  a distanza su Skype con gli altri “membri della squadra”, altrettante telefonate, messaggi su WhatsApp e brainstorming dal vivo, l’idea ha preso forma.
Ora il progetto è on line, sulla piattaforma Indiegogo.

Si chiama “Come and See. You have the Key”.
questo link puoi trovare tutte le informazioni.
 Qui la pagina facebook.

Se sei arrivato a leggere fin qui, e magari hai intenzione di sbirciare di là nella pagine di Indiegogo per capire di cosa si tratta e, come me, hai sentito anche solo per un attimo che sarebbe piaciuto anche a te riuscire a far brillare due occhi e un sorriso nella polvere, ti do una buona notizia.

Puoi farlo.
Puoi contribuire.
Anche solo con un euro puoi fare la differenza.
Per Natale, regalati qualcosa di importante. Regalati il sorriso di un bambino.
Non c’è gioiello più bello che tu possa indossare, né indumento più caldo.

Aiutami a condividere questo link.

Grazie.

 
 

La macchina del tempo, ovvero “Il Bibliomotocarro” del maestro Antonio la Cava, e un sogno da realizzare.

[Suggerimento musicale per la lettura: La vita gaia-G. Coggi]

 

“Nella vita tutto si fa col gioco,
niente si fa per gioco”
Sir Robert Baden-Powell, fondatore dello scautismo

 

Oggi voglio raccontarvi una storia che parla di un potente stregone, del suo carro magico, e di come abbia insegnato ai suoi piccoli apprendisti a viaggiare nel tempo.

Questa storia ha inizio in estate, in un torrido pomeriggio di agosto.

Fa molto caldo, nella mia terra natia, a Ferrandina, in Lucania.
Sono tornata per fare visita ai miei e per godere della calma di questo piccolo paese nascosto tra i calanchi bollenti. Per caso, mi è capitato tra le mani un quaderno di esercizi. Un mio quaderno delle scuole elementari che mia madre aveva custodito.
Avevo appena sei anni, e scrivevo l’alfabeto.

È così che comincia la storia, con una telefonata al mio maestro delle scuole elementari, Antonio la Cava, più bonariamente conosciuto in paese come “il maestro Tonino”. Gli ho proposto di incontrarci, per parlare e per fare qualche foto al suo Bibliomotocarro.
Erano passati più di vent’anni dall’ultima volta che ci eravamo visti.

L’appuntamento è a villa Pinocchio, un piccolo parco dedicato all’infanzia.

Quando è arrivato, al suono della marcia ‘La vita gaia’, i bambini presenti sono stati catturati dalla sua magia. Hanno smesso di giocare a pallone, hanno abbandonato le bici per terra, e si sono avvicinati a quella straordinaria biblioteca itinerante.

Il maestro in pensione è saltato giù con sorprendente agilità, ha aperto le porte di quell’incantato luogo-non luogo e ognuno di loro ha scelto un libro per sé. Alcuni si sono seduti sulle panchine e hanno iniziato a sfogliarlo, altri lo hanno riposto negli zainetti, come se fosse uno scrigno del tesoro da aprire a casa, e hanno ripreso a giocare. Nessuno di loro ha lasciato il nominativo e il maestro non ha annotato alcuna data, né titolo. L’ho guardato con aria interrogativa, e lui sorridendo mi ha risposto: La fiducia è un valore che va insegnato con l’esempio, non a parole. Io mi fido di loro, e loro ricambiano. Nessun bambino mi ha mai rubato un libro.
Lo so, conosco il suo metodo educativo, essendo stata io stessa sua alunna molti, molti anni fa. Lui aveva tutti i capelli neri, all’epoca, e la giacca. Adesso ha i capelli lunghi, e canuti, e indossa pantaloni colorati, ma i modi sono gli stessi di sempre. Il suo sorriso, pure.

Ci siamo seduti a chiacchierare, ma sono arrivati altri bambini che hanno portato i loro amici a prendere un libro, e lui si è alzato per aiutarli a scegliere, in base all’età, o ai gusti, o al carattere. L’ho osservato passare in rassegna i titoli dei libri affastellati nella sua biblioteca con le ruote, e soffermarsi su quello giusto. Mi ha ricordato un personaggio della commedia dell’arte, un commediante fuoriuscito dal romanzo ‘Il capitan Fracassa’, proprio quel capo comico del carro di Tespi, Erode il Tiranno, l’omaccione dall’aspetto burbero ma dall’ animo generoso e mite. È lui che conduce la compagnia di comici nel carrozzone colorato e rumoroso, viaggiando in lungo e in largo per strade sgangherate e solitarie.
Per inciso, quel libro me lo prestò proprio il maestro Tonino, tanti anni fa.

Nel frattempo è arrivato Leo Fabbrizio, bravissimo fotografo e mio amico, al quale ho chiesto di fare qualche foto al bibliomotocarro, e a noi. Ci mettiamo d’accordo sul posto in cui scattarle, e ci avviamo. Il maestro mi chiede di fargli compagnia, e salgo su quel motocarro trasformato in biblioteca mobile.

Il suo progetto è semplice, di una semplicità che cozza con la crescente complessità degli stili di vita occidentali. Portare il libro nei paesini che non hanno una libreria. Gratuitamente.
Contrapporre la lentezza alla velocità, e il silenzio al rumore.
“Ma come”, direbbero i malpensanti, “nell’epoca della post-modernità, in cui tutto vola e fugge, in cui il webdomina la vita di ognuno, e la rete offre tutto ciò che si potrebbe desiderare, c’è ancora bisogno di libri trasportati su un’Ape che non supera i 45 km orari?”
La mia risposta è: sì, ora più che mai.
Perché navigare nel web è importante, ma più importante ancora è avere un molo di partenza, e uno di arrivo. E questo molo dal quale noi tutti dovremmo partire, è il libro.
Che niente può sostituire.

La piccola-grande biblioteca itinerante, foto di Leo Fabbrizio

La piccola-grande biblioteca itinerante, foto di Leo Fabbrizio

Il bibliomotocarro, all’interno, è piccolo, ma comodo. Quando passiamo per le vie del paese alcuni sollevano la mano per salutarci.
Il mio maestro è sempre stato un anticonformista. Eravamo gli unici a non avere l’obbligo di indossare il grembiule “per non essere uniformati”. Si atteneva poco ai programmi ministeriali, e riteneva impossibile (parola sua) insegnare la geografia nello spazio limitato da quattro pareti che era la classe. Invece di farci imparare i nomi dei laghi principali dell’Italia, chiamava l’autobus cittadino (guidato da mio padre), e ci portava alla diga.
Laggiù, in mezzo al fango e ai girini, ci spiegava come la grandezza del genio umano, e le tecniche dell’ingegneria, imbrigliavano la forza dell’acqua. Noi la vedevamo, quella grandezza, con le bocche aperte e gli occhi spalancati, e lo assillavamo di domande. Cresceva in noi l’amore per la conoscenza. La scuola, ce la faceva dal vivo.
Eravamo la classe che stava meno in classe.

Ci insegnava con il gioco, ci insegnava la meraviglia, la curiosità per ciò che ancora non conoscevamo. Ci sarà tempo, diceva ai miei genitori quando c’erano gli incontri annuali, per riempire il secchio. Ora dobbiamo accendere il fuoco.
E la mattina fremevo d’impazienza quando mia madre ci metteva più del dovuto a farmi le trecce. Volevo andare a scuola, e volevo andarci presto.

Mentre scorrazziamo per le strade sconnesse di campagna, la sua voce mi porta indietro nel tempo.
Alcuni miei compagni avevano dei caratteri irrequieti. Non si applicavano granché, e difficilmente imparavano le nozioni fondamentali. Ma per ognuno di loro, il maestro aveva una parola di incoraggiamento. Sempre. Troverai la tua strada, non avere timore, diceva. Devi solo capire cosa ti piace, e presto o tardi lo capirai.
Aveva fiducia in noi. Me lo ricordo bene, perché c’ero. Ci chiamava ‘fanciulli’, che è un termine forse un po’ desueto, ma molto poetico, che mi è rimasto molto caro.

Presi dai nostri problemi quotidiani, dalle faccende urgenti della vita, a volte dimentichiamo le cose importanti, quelle più vere. Dimentichiamo di essere riconoscenti per le cose essenziali, che diamo per scontate, come il saper leggere.
Che tutti noi sappiamo e possiamo leggere è una conquista della modernità. La possibilità di apprendere il pensiero di uomini straordinari, le loro idee, la loro intelligenza, fa di noi degli esseri liberi. Dovremmo tutti essere riconoscenti ai nostri maestri delle scuole elementari.
Ancor più se, oltre a insegnarci a leggere (che già di per sé è un debito che non potremo mai estinguere), ci hanno insegnato ad amare la lettura. A me è successo.
Questo amore è diventato parte integrante della mia esistenza. I libri sono stati, e sono tuttora, il mio rifugio. Tutto ha avuto inizio quasi trent’anni fa.

La mia classe con il maestro. Io sono la quarta da sinistra, in piedi, con il maglione a righe bianche e rosse

La mia classe con il maestro. Io sono la quarta da sinistra, in piedi, con il maglione a righe bianche e rosse

La mia classe era ampia e spaziosa, e le larghe vetrate davano sulla strada principale e sugli alti alberi che si spogliavano e ricoprivano di foglie col volgere delle stagioni.
Quando leggevo goffamente, aiutandomi con il mio dito paffuto di bambina, il maestro mi si avvicinava e mi diceva (in qualsiasi modo io avessi letto): brava. Adesso rileggi, e fa’ attenzione alla punteggiatura. Le virgole e i punti sono sempre bistrattati, nessuno li nota mai, ma tu fa’ loro compagnia. Non li abbandonare, dai loro considerazione. Vedi questa virgola, questa qui che hai appena passato, è una piccola pausa. Vuole che ti fermi un istante, e le fai l’occhiolino. Il punto no, il punto è un po’ presuntuoso, vuole che ti fermi. E gli stringi la mano. Hanno bisogno di coccole, come tutti.
Io leggevo, e prendevo a cuore la punteggiatura. Ci passavo interi pomeriggi a dare alla punteggiatura ciò che il resto del mondo dimenticava di darle: considerazione.

Mi sembra ieri che quest’uomo appassionato si sedeva accanto alla bambina con le trecce.
Vedi Rosanna, un libro non è fatto solo da parole infilate una dietro l’altra. La lettura, è musica. Ogni frase ha un suo ritmo, dei passi che ti spinge a fare. E noi, noi che leggiamo, danziamo su questa sinfonia. E le parole ci portano lontano, lontano, in altri mondi. Viaggiamo nel tempo, e non lo facciamo in una fredda navicella spaziale, legati con la cintura. Lo facciamo danzando. Trova la musica, e troverai la magia.

E io la trovai.

Un pomeriggio di un inverno rigido di venticinque anni fa, mio padre mi portò un libro preso all’oratorio.
Era da poca passata l’ora di pranzo. La mia casa era silenziosa, i miei fratelli erano fuori a giocare. Lo aprii e cominciai a leggerlo, e sentii la musica.
Quando lo terminai era sera inoltrata, e la casa era piena di gente. I miei zii e cugini erano venuti a farci visita. I miei fratelli erano rientrati e c’era un gran chiasso, ma io non li avevo sentiti! Mi erano passati accanto e mi avevano accarezzata. Non li avevo sentiti entrare, salutarmi e chiacchierare. Ero completamente ed irrimediabilmente persa in quella storia, e non ero lì con loro. Ero in Inghilterra, e fuori non c’erano automobili, ma carrozze.
Il romanzo era “Un canto di Natale”, di Dickens, e io lo amai con tutto il cuore.
Fu il mio primo viaggio nel tempo.
Confesso di non aver mai imparato le tabelline, davvero, ma da allora non mi sono più fermata: ho viaggiato in lungo e in largo. All’età di dieci anni ero già stata in Francia, con Cosetta de I miserabili; in Russia, dove avevo pianto commossa il destino di Anna Karenina; poi di nuovo in Inghilterra, per fare amicizia con David Copperfield, e poi ancora nell’Oceano Atlantico, a contare casse di rhum ne L’isola del tesoro.

Nelle mutevoli vicende della vita il piacere della lettura non mi ha mai abbandonata.
Ho cambiato tutto, crescendo: lavori, amici, luoghi. Solo una cosa è rimasta costante, sempre: l’amore per i libri. Sono stati palestre di libertà, e conforto nei momenti bui.
Quando studiavo all’università e tornavo a Ferrandina da Roma, avevo con me due borse: una per i vestiti, l’altra per i libri da leggere. Adesso ho un e-reader, più pratico negli spostamenti, che non sostituisce i manoscritti cartacei, ma li affianca.
Un giaccone non era adatto a me se non aveva le tasche abbastanza ampie da contenere un libro, e quando divenni adulta nessuna borsetta a baguette, per quanto fosse alla moda, andava bene se non era abbastanza larga per un romanzo.
Ho davvero vissuto mille vite, e viaggiato nel tempo e nello spazio, come mi aveva promesso il mio maestro, tanti anni prima.
Non conosco i nomi di tutti i laghi d’Italia, e non conosco i nomi di tutti i capoluoghi di provincia, e non mi è mai servito saperli a memoria.
Quello che mi è servito imparare davvero, io l’ho avuto.

La voce del maestro è sempre la stessa. Mi parla di quando era bambino lui, di come leggeva alla luce di una sola candela. Di come fosse convinto che fosse il fuoco del camino a ispirargli piccole poesie che lui, poi, riconoscente, riconsegnava alla fiamma. Si ricorda di ognuno di noi, mi dice di quanto fossimo una bella classe. Mi racconta di me, di come ero, di quanta allegria portassi, e un po’ mi rattristo al pensiero che la vita, a tratti, l’ha spenta, quell’allegria.

Arriviamo nel posto concordato, un belvedere sul piccolo paese in cui sono cresciuta, e Leo, nel suo solito modo gentile, ci scatta qualche foto.

1

Il maestro Tonino, il bibliomotocarro, e io, poco prima di andare via. Foto di Leo Fabbrizio.

Sul web la sua biblioteca itinerante è diventata famosa. Molti programmi televisivi e giornali ne hanno parlato, perfino Oltreoceano; dozzine di articoli hanno fatto il giro della rete.

Pluripremiato, perfino in Campidoglio con il premio Simpatia, è una celebrità, il maestro Tonino, ma lontano da qui.

Non sono molti a sapere di quanto si parli di lui, di come sia giustamente citato ad esempio da seguire. Deve essere difficile possedere una personalità così eccentrica ed affascinante in un paese così piccolo. Ci vogliono profondità e coraggio per essere se stessi sempre, e il maestro Tonino ne ha sempre avuti, dell’una e dell’altro. Ed è per rendere merito a questo che io voglio umilmente esprimergli tutta la mia stima e la mia infinita gratitudine.

Al ritorno, mentre mi accompagnava a casa, il maestro mi ha accennato un suo progetto: fare il giro d’Italia con il bibliomotocarro (tutte le informazioni qui). Portare ancora ai bambini la gioia di leggere, oggi come allora, percorrendo tutto lo stivale con la sua Ape che, lo ripeto, raggiunge una velocità massima di 45 km/h.

Invito tutti color che vogliono, e possono, ad aderire all’iniziativa, per rendere reale questo sogno, ed aiutare il maestro a portare la sua saggezza e il suo fuoco a tutti i bambini d’Italia.
Riporto il suo personale appello:
“il giro d’Italia in Bibliomotocarro è come il GIRO CICLISTICO: con tappe di partenza e di arrivo; per realizzarlo occorrono persone, associazioni, pro-loco, librerie, altro, distribuite su tutto il territorio nazionale (almeno una in ogni regione), disposte ad organizzare un evento o un’iniziativa di promozione del libro e ad ospitare nella notte il Bibliomotocarro. Quando saranno arrivate tutte le disponibilità ad ospitare per una TAPPA D’ARRIVO il Biblomotocarro, l’organizzazione del Giro stilerà il calendario possibile, tenendo conto delle richieste pervenute rispetto alle date indicate: certo, non è semplice, ma è possibile e, comunque, vale la pena provarci. Allora avanzate le richieste, indicando le vostre date preferite (più di una per agevolare il lavoro di sintesi). Per le spese di viaggio troveremo una soluzione, magari uno sponsor o più di uno. Intanto mi affascina l’idea che fino a ieri sembrava un sogno, oggi appare una possibilità: E SE DOMANI FOSSE REALTA’?”

Se lo fosse, sarebbe una realtà meravigliosa.
È una cosa che ha valore, una magia. Credetemi.
Io lo so, perché sono stata una sua apprendista, e l’ho imparata.

Per info e contatti
Sito: www.ilbibliomotocarro.com

mail: ilbibliomotocarro@gmail.com
Te.: 3313130303

 

La quarta parola del mago: TACERE, e la creatività.

[Suggerimento musicale per la lettura: H. Zimmer_A hard teacher]

 

Ed eccoci giunti all’ultima delle quattro parole del mago. Dopo sapereosare e volere,  è il momento di TACERE.

Secondo Eliphas Levi tacere è “una discrezione che nulla può inquinare o corrompere”.
Credo che la linea di divisione tra “realtà” e “immaginazione” sia più sottile di quanto siamo disposti ad ammettere.
Il nostro inconscio non fa alcuna differenza tra realizzare e dire di aver realizzato.
Se diciamoparliamo e spieghiamo i nostri progetti, per il nostro inconscio sarà come averli già realizzati. Che gli altri ci critichino o ci lodino, per la nostra essenza più profonda sarà come aver già partorito la nostra creazione, e poco importerà se sarà solo un embrione: avremo comunque avuto la nostra ricompensa.
Sedersi a un tavolo, tutti i giorni alla stessa ora, far “propria tutta la noia”, come scriveva Auden nella sua poesia “Il romanziere”(1), e cercare di dare un senso compiuto alla nostra creatura sarà ancora più arduo e monotono: chi vuole scrivere due volte lo stesso romanzo?
Inoltre, mostrare prematuramente un progetto a qualcuno, compresi coloro che ci vogliono bene, equivale a piazzare un bambino su una bici quando è ancora incapace di camminare.
Qualsiasi critica, seppur in buona fede, è capace di distruggere le nostre migliori buone intenzioni.

G. G. Marquez alla scrivania

G. G. Marquez alla scrivania

In “Vivere per raccontarla”, Gabriel Garcia Marquez, riferendosi a un consiglio che gli diede Ramón Gómez de la Serna, scrive:
“Ma quello che seguii sempre alla lettera fu la frase con cui quel pomeriggio si congedò da me:
«la ringrazio per la sua deferenza, e in cambio le darò un consiglio: non mostri mai a nessuno la versione provvisoria di quello che sta scrivendo».”(2)
I giudizi altrui, la loro disapprovazione, il biasimo, anche la loro opinione più gentile, ci fanno cadere preda del vittimismo e alimentano la mancanza di fiducia in noi stessi. Usare le critiche come alibi ci deresponsabilizza. Ci autocommiseriamo, sabotandoci. Questo atteggiamento va sconfitto, colpendolo proprio laddove è più forte: nel bisogno che abbiamo di essere compresi, accettati, amati.

Essere discreti significa non esporre il fianco. Non contaminare la creazione, che è un atto sacro, con desideri narcisistici. In fin dei conti, faccio ciò che faccio non per pavoneggiarmi, ma perché mi è indispensabile farlo.

Perciò SAPERE, e spingersi oltre il conosciuto.
OSARE, avendo il coraggio di desiderare.
VOLERE, con disciplina, costanza, impegno.
TACERE, per proteggere la propria visione finché non sarà forte abbastanza da affrontare il mondo.

Ecco cos’è, la magia. Così facile, così difficile.

Un esercizio utile è, alla sera, ripensare alla nostra giornata. Con chi abbiamo parlato dei nostri progetti, delle nostre aspirazioni? cosa avremmo potuto evitare di dire? lo abbiamo fatto per puro desiderio narcisistico o per altro? e cosa è questo “altro”? cosa ha provocato, in noi, il fatto di averne parlato?

Viandante sul mare di nebbia, Caspar D. Friedrich

Viandante sul mare di nebbia, Caspar D. Friedrich

 


(1)Appuntato al talento come a un’uniforme,
/il grado dei poeti è noto a tutti;
/stupirci come un temporale possono,
/morire tanto giovani, per anni viver soli.//Possono scatenarsi come ussari: ma lui deve/
liberarsi del suo dono puerile e apprendere
/a esser complesso e semplice, a esser uno
/che nessuno si sogna di seguire.//Per realizzare il più facile dei suoi voti,/
deve infatti far sua tutta la noia,/
prono agli ovvi lamenti dell’ amore, tra i Giusti//esser giusto, tra i Luridi essere pure lurido,/
e, se può, nel suo debole Io deve soffrire/
senza intendere tutti i misfatti dell’Uomo.

(2) Gabriel García Márquez, Vivere per raccontarla, Edizioni Mondadori (Scrittori Italiani e Stranieri). Traduzione di Angelo Morino.

 

La terza parola del mago: VOLERE, e la creatività.

[Suggerimento musicale per la lettura: L.Einaudi_Primavera]

 
 
Dopo “sapere” e “osare”, la terza parola del mago è VOLERE.

Secondo Eliphas Levi volere è “avere una volontà che nulla può spezzare”.
A mio avviso la volontà è una questione di autostima. Esercitare la paziente costanza dell’esercizio ripetuto significa credere non solo in ciò che si fa, ma anche in ciò che si vale.
Io valgo il tempo, la fatica e il rischio di fallire.
Nella sua autobiografia Agatha Christie confessò: “c’è stato un momento in cui sono passata da dilettante a professionista. Mi sono assunta l’onere di una professione, che è scrivere anche quando non vuoi, non ti piace ciò che scrivi e non scrivi particolarmente bene” (1).

Agatha Christie

Agatha Christie

Ripetere lo stesso gesto, tutti i giorni, con qualsiasi condizione emotiva o di salute, facendo ciò che noi stessi abbiamo desiderato e deciso di voler fare, ecco cos’è VOLERE.

Scrivere un romanzo non ha nulla di romantico. Si tratta di infilare una parola dopo l’altra, sia quando questa parola ce l’abbiamo, sia quando proprio non sappiamo dove pescarla. Significa strappare intere pagine scritte male, perché comunque andava fatto. Significa imparare a creare senza attendere l’ispirazione, a rispettare una scadenza che noi stessi ci siamo dati, costi quel che costi. Perché ciò che facciamo ha valore, noi abbiamo valore.

Se non sono disposto a tanto, probabilmente è perché non mi stimo. Non credo in me, nelle mie capacità. Dubito del mio valore, e del mio ingegno. E allora qualsiasi altra cosa ha la precedenza su di me: i panni sporchi da lavare, quella telefonata alla cugina, la chiacchierata con l’amica che ha il cuore infranto.
Non basta osare: il passo successivo è altrettanto importante, perché altrimenti non sarò disposto a pagare alcun prezzo per qualcosa che non sono capace di stimare.
“Il talento vale poco. Ciò che conta è la disciplina”, diceva Andre Dubus (2).
Il temperamento artistico vale poco se non è supportato da disciplina, pazienza, cura e costanza.
Realizzare la visione che si ha dentro è possibile. Basta VOLERE.

Un buon esercizio è scegliere uno dei desideri formulati nel precedente esercizio e provare a strutturare tutto il processo che serve per realizzarlo. Dare una disciplina al proprio tempo, ordinarlo in modo che sia al nostro servizio per aiutarci a rendere reali e vive le nostre visioni.

 


(1) Agatha Christie, La mia vita, collana Oscar scrittori del Novecento, Mondadori.
(2) Olivia Carr Edenfield, Conversations with Andre Dubus (Literary Conversations), University Press of Mississippi (August 1, 2013)

 

La seconda parola del mago: OSARE, e la creatività.

[Suggerimento musicale per la lettura: R. Cacciapaglia_ Lux libera nos]

 
 
Dopo “sapere”, di cui scrivo qui, la seconda delle quattro parole del mago è OSARE.

Secondo Eliphas Levi, osare è “un coraggio che nulla può far vacillare”.
“Non sei capace”, “è troppo tardi per te”, “questo progetto è troppo ambizioso”, “sei brava ma non hai talento”, “pensa alle cose serie”: tutti ci siamo sentiti dire (e ci siamo detti) una di queste frasi almeno una volta nella vita, soprattutto in coincidenza dell’impegno profuso in un lavoro creativo.

Io mi arrabbio.
No, dico davvero: mi arrabbio con chi mi dice queste cose. Sublimo il sentimento distruttivo della rabbia e lo uso a mio favore, utilizzandolo per capire quando è il momento di dire “basta”.  E visto che ci sono, mi arrabbio anche con me stessa tutte le volte che la mia voce interiore censoria me le sussurra a tradimento.
Osare è desiderare qualcosa che ancora non ho ma che, alla luce della conoscenza acquisita, posso formulare.
È un fuoco che arde.
Le voci continuano: “potrei farlo, ma non ho tempo”, oppure “sarei capace, ma non posso permettermelo”.
Non è così.
Il “non posso” è sempre un “non voglio”. E non voglio, perché ho paura.

Per volere, che è la terza parola del mago, è necessario superare la paura, afferrare il coraggio a due mani e concedersi il diritto di desiderare.

La vita non è quella che ci insegnano, o quella che crediamo. Per me la vita è ciò che della vita facciamo.

Dopo aver accumulato sapienza, è necessario ritrovare il proprio potere personale e fare di tutto per favorire la propulsione in avanti dei propri desideri.

William Murray scriveva, citando Goethe: “C’è una verità elementare, la cui ignoranza uccide innumerevoli idee e splendidi piani: nel momento in cui uno si impegna a fondo, anche la provvidenza allora si muove. Infinite cose accadono per aiutarlo, cose che altrimenti mai sarebbero avvenute. Ho imparato un profondo rispetto per una frase di Goethe: Qualunque cosa tu possa fare, o sognare di poter fare, incominciala. L’audacia ha in sé genio, potere, magia. Incomincia adesso.”(1)
Per far fluire la magia è necessario avere il coraggio di desiderare, “un coraggio che nulla può far vacillare”, credere in se stessi sempre, e OSARE.
Un esercizio utile per me è pensare, di tanto in tanto, a cinque cose che vorrei e che non ho. Cinque cose che desidero davvero, materiali e immateriali. Chiedermi perché le desidero, cosa rappresentano per me e così via a ritroso, fino alla radice che alimenta il desiderio.

(1) William Hutchison Murray, “The Scottish Himalayan Expedition” (1951). La frase di Goethe a cui si riferisce proviene da una traduzione delle righe 214-30 del Faust ad opera di John Auster nel 1835. (Londra, Cassell, 1835, p.20).

Friedrich, "Luna nascente sul mare"

Friedrich, “Luna nascente sul mare”

 
 

La prima parola del mago: SAPERE, e la creatività.

[Suggerimento musicale per la lettura: Harry Potter, In Noctem]

 

Come scrivevo in questo post, quattro sono le parole del mago, quattro parole alla base di ogni atto creativo.

La prima è SAPERE.

Secondo Eliphas Levi, il sapere è “un’intelligenza illuminata dallo studio”.
“Intelligenza” deriva dal verbo intelligĕre, “capire”.

Intelligĕre è una contrazione del verbo latino legĕre, “leggere”, con l’avverbio intus, “dentro”. Intelligente, quindi, è colui che “legge dentro”, che va oltre la superficie e raggiunge il significato delle cose, in profondità.
Per sapere, è necessario avere un’ attitudine ad andare oltre l’apparenza delle cose, del già dato, del conosciuto.

Tolstoj alla scrivania

Tolstoj alla scrivania

Il 1 novembre 1864 Tolstoj scriveva a Fet: “non scrivo nulla, ma lavoro fino al tormento. Non vi potete figurare quanto sia difficile questo lavoro preventivo di aratura profonda del campo su cui dovrò seminare. Meditare e ripensare tutto ciò che può accadere a tutti i futuri personaggi della presente opera, assai vasta, e riflettere su milioni di combinazioni possibili, per poi sceglierne la milionesima parte, è tremendamente arduo. E di questo io mi occupo”.(1)
L’opera era “Guerra e pace” e lo scrittore impiegò cinque anni a scriverla.
Emilio Salgari, il creatore di Sandokan, non visitò mai la Malesia, le isole dei Caraibi o l’India, ma le studiò attraverso le enciclopedie, le riviste di viaggi e i libri scovati nelle biblioteche di Verona e Torino. Scrisse più di 80 libri, la maggior parte dei quali ambientati in luoghi che non vide mai.
Prima di creare qualsiasi cosa, bisogna SAPERE, e sapere è anche esperire. Vivere.
Se non si è mai amato nessuno, come si potrà scrivere dell’amore? se non si è mai fallito, come si potrà trasmettere ai propri simili il dolore della perdita?

Sapere non è facile. Richiede, come tributi, pezzi di sé.
Solo se si è disposti a lasciare il vecchio per il nuovo, a mettere in discussione le certezze, le sicurezze, il tepore del conosciuto, si può conoscere davvero.
Perdere pezzi di sé è la conditio sine qua non di qualsiasi atto creativo.
Tolstoj cambiò molte volte l’impianto del suo romanzo e mentre scriveva studiava le cronache, le lettere, le testimonianze della guerra di cui voleva raccontare.
La contessa Tolstoj annottava nel suo diario: “Lévocka (diminutivo familiare di Lev) in tutto questo inverno è irritato, scrive tra le lacrime e con agitazione”.(2)
Se non si crea “con agitazione” e perché non si ha nulla da perdere, non si sta mettendo in campo la cosa più importante: la possibilità di perdere le proprie certezze, la sicurezza del conosciuto, il benessere di ciò che è familiare.
Non si sta andando oltre, non si studia, non si esperisce. Non si SA.

Un esercizio utile è quello di imporsi, almeno una volta a settimana, di dedicare del tempo alla lettura di un romanzo, di un saggio, visitare una città o scoprire angoli nuovi di quella in cui si vive, chiacchierare con qualcuno facendosi raccontare esperienze diverse dalle proprie, ricordi, nuovi punti di vista.

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(1) TOLSTOJ, L., Guerra e pace, Roma, Gherardo Casini Edizioni Periodiche, Gennaio1966, pag. 8 dell’ Introduzione.
(2) Ibidem, pag. 11 dell’ Introduzione.

 

Le quattro parole del mago e la creazione artistica

[Suggerimento musicale per la lettura: Harry Potter, Main theme]

 

SAPERE, OSAREVOLERETACERE: queste sono le quattro parole del mago.”
Eliphas Levi, “Il Dogma e il Rituale dell’Alta Magia”

 
 

Eliphas Levi, pseudonimo di Alphonse Louis Costant, fu uno dei più noti studiosi di esoterismo dell’Ottocento.

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Foto di Eliphas Levi

Fu lui a stabilire, per la prima volta, un rapporto fra le 22 lettere dell’alfabeto ebraico e i 22 Arcani Maggiori dei Tarocchi, considerando le figure come una “pratica” (sono ironica) enciclopedia di tutti i dogmi religiosi, dai più antichi ai più moderni.
E fu sempre lui a definirli “Arcani Maggiori” per la prima volta.
Le sue idee (originali o prese in prestito) sulla magia furono (e sono) un punto di riferimento per tutti gli studiosi di esoterismo del mondo.
Secondo Levi, “Per raggiungere il sanctum regnum, vale a dire la sapienza e il potere dei maghi, vi sono quattro condizioni indispensabili: un’intelligenza illuminata dallo studio, un coraggio che nulla può far vacillare, una volontà che nulla può spezzare, e una discrezione che nulla può inquinare o corrompere. SAPERE, OSARE, VOLERE, TACERE: queste sono le quattro parole del mago…”

Mentre riflettevo su questa frase bevendo il mio caffè mattutino, ho improvvisamente realizzato che quelle esposte da Levi sono quattro condizioni indispensabili non solo per produrre una creazione artistica, un romanzo nel mio caso, ma ogni opera tout-court.
Chiunque crei qualcosa, usando l’ingegno, la ragione, la logica o l’intuito, prima di realizzarla sul piano materiale, la tira fuori da una dimensione invisibile: Inconscio collettivo, Akasha, Logos, Iperuranio, Mondo degli spiriti o Dio che si voglia chiamarlo.
Prima non c’è nulla, poi appare qualcosa, in principio soltanto dentro di noi, poi fuori, attraverso un lavoro di materializzazione paziente. Questo processo avviene attraverso quattro passaggi, sintetizzabili nelle quattro parole del mago: “Sapere, osare, volere e tacere”.

Lo spiegherò in quattro post, dedicati ognuno a una parola. Tornate a leggermi la settimana prossima, se vi interessa sapere come si fanno gli incantesimi.
(Se vi interessano i post relativi li trovate qui: sapere, osare, volere, tacere).

Vanitas con libri, mappamondi, strumenti musicali, candela e clessidra, Edwaert Collier_1662

Vanitas con libri, mappamondi, strumenti musicali, candela e clessidra, Edwaert Collier_1662