La prima stesura di un romanzo e L’ Opera al nero alchemica

[Suggerimento musicale per la lettura: The crow_soundtrack]

 
Questi primi, gelidi giorni di Dicembre mi si stanno snocciolando sul calendario uno dietro l’altro sotto l’egida del Corvo.
A dire il vero, è da ottobre che il Corvo mi si è appollaiato su una spalla, e mi gracchia nell’orecchio con quel suo verso così dolce.
Il punto è che, con mio grande disappunto, che temo dovrò sorbirmi il suo gracchiare per altri mesi. Forse per tutto l’inverno.

CORVO IMPERIALE - Raven - Corvus corax - Luogo: Cogne (AO) - Autore: Alvaro

CORVO IMPERIALE – Raven – Corvus corax – Luogo: Cogne (AO) – Autore: Alvaro

Ogni tanto mi piace trovare parallelismi tra quello che faccio e l’alchimia. Un’abitudine indegnamente mutuata da Jung (anch’egli sovente co-protagonista dei miei post) e dalla lettura entusiasta del suo Psicologia e alchimia[1].
In questo saggio lo psichiatra svizzero prova a spiegare come le fasi attraverso le quali avviene l’opus alchemicum corrispondano a quelle del “processo di individuazione”, cioè quel processo nel quale si prende consapevolezza della propria individualità e si scopre la propria vera essenza interiore.
Jung approfondì successivamente questa interessantissima tesi in Psicologia del transfert(1946), Saggi sull’alchimia (1948) e nel Mysterium Coniunctionis (1956).

Quando la sciatica mi costringe a letto, soprattutto con la canicola estiva, mi consolo con letture leggere

Quando la sciatica mi costringe a letto, soprattutto con la canicola estiva, mi consolo con letture leggere

Dicevo: ogni tanto mi capita di riconoscere concetti che collegano la scrittura a quella paccottiglia di conoscenze mistico-esoteriche che mi ritrovo, mio malgrado, in testa per aver divorato parecchi libercoli su tali argomenti. Spesso, di pessima qualità e dubbio contenuto, devo riconoscerlo, ma talvolta forieri di pietre focaie utili a far brillare qualche piccola, debole e fugace scintilla di intuizione.

Abitualmente, non dedico spazio scritto a queste mie congetture, che rimangono nel mondo iperuranico delle (mie) idee, ma di tanto in tanto ho fatto qualche strappo alla regola, come ad esempio in questo articolo sulle quattro parole del mago e la creazione artistica.
Così, dimostrando grande coerenza, strappo di nuovo la regola che mi sono data io stessa, e scrivo (poche righe, lo prometto), sui tre stadi in cui la “materia prima” (l’idea di una trama) mescolata a un cucc.no di zolfo, ½ l. di mercurio e un pizzico di sale, e riscaldata a fuoco vivace nella padella dell’atanor, si trasforma nella pagnotta filosofale.
E qualcuno si starà chiedendo, cosa diamine c’entra questo con la scrittura?
C’entra, c’entra.
Questi stadi (i principali sono tre) prendono il nome dal colore che la materia assume man mano che trasmuta.

All’inizio, quando la materia si dissolve, putrefacendosi, abbiamo La Nigredo (Opera al nero, rappresentata da un Corvo). Poi, la stessa passa alla fase successiva, in cui si purifica sublimandosi, chiamata Albedo (Opera al bianco, rappresentata da un Cigno), fino a quando non si ricompone e si fissa in una nuova struttura, migliore, che è la Rubedo (Opera al rosso, rappresentata da una Fenice).

Ora, io sfido qualsiasi scrittore a non raccontare la propria esperienza di scrittura e stesura di un romanzo che non passi da tutte e tre queste fasi.

Prima stesura.
Arriva un’idea, o un personaggio. Le/gli si appicciano sopra un paio di ostacoli, e si prova a immaginare come si può sviluppare/reagisce. Si abbozza una trama. Si iniziano a vomitare parole a caso, una dietro l’altra. E man mano che si procede, il personaggio prende vita, acquisisce spessore, vive di vita propria e sceglie cose che tu scrittore non hai previsto. Così, la struttura iniziale, si modifica. Spesso, dopo uno o due mesi di scrittura, i personaggi sembrano un po’ appassire. La trama non ci sembra più tanto coerente e, di pari passo, la nostra determinazione inizia a cedere. Sì, insomma, come scriveva Anton Čechov “Qualsiasi idiota può superare una crisi. È il quotidiano che ci logora”.

Continuare a scrivere nonostante le idee che si dissolvono e la nostra determinazione inizi a odorare di stantio, non è facile, e richiede una certa presenza di spirito. Le visioni che abbiamo in testa, che sembravano così brillanti o divertenti o drammatiche, sbiadiscono. Anzi, meglio: si dissolvono, putrefacendosi.

Eccola qui, l’Opera al Nero.

Eccola, la prima stesura di una trama, inizialmente lucidata a dovere e strutturata in un certo modo, che non ha proprio voglia di stare lì ferma e rigida, e si ribella stiracchiandosi e agitandosi.
Lo scrittore inesperto non lo aveva previsto e la sua volontà inizia a cedere sotto i colpi impietosi, ma ahimé inesorabili, della Nigredo.
Come dice Neil Gaiman: “Tutti sono capaci di iniziare un romanzo. Se sei uno scrittore, puoi anche finirlo”. È proprio a questo punto che, i più, abbandonano.

La nostra prima stesura muove i suoi traballanti passi sotto le ali del Corvo, tra i miasmi putrescenti della Nigredo.
Arrivare fino alla fine richiede qualità interiori sulle quali il buon Jung ha sprecato parecchi etti di carta.

Durante la revisione (seconda fase), il testo si sfoltisce. Si tagliano le parti noiose (si spera), si snelliscono i personaggi e si alleggeriscono le scene. Anche la sintassi perde le zavorre dei pensieri confusi della prima fase oscura. Si decide di riscrivere qualche parte (a volte interi capitoli) e di tagliare/aggiungere personaggi, dialoghi, o cambiare la voce narrante.

È l’Albedo. La revisione ha (o meglio, dovrebbe avere) il candore del Cigno.

E infine, ciò che si è deciso durante la purificazione della “materia prima” (la nostra storia, le nostre idee), viene fissato di nuovo, nella seconda stesura (ma facciamo anche nella terza, quarta, eccetera eccetera).
La trama si fissa, e ogni cosa trova il suo posto. L’idea iniziale non sembra così orrenda, con questo nuovo vestitino e il fiocco tra i capelli. Anzi: pare anche graziosa.

La seconda stesura è la Rubedo. La Fenice risorge dalle sue ceneri.

Sarà bello quel momento, ma non è oggi.
Oggi, ho il pennuto nero che mi artiglia la spalla e gracchia il suo verso stridulo dentro l’orecchio e dritto fino al cranio.
È in momenti come questi che fatico a non rinnegare la mia scelta etica vegetariana, resistendo per non mettergli le mani al collo e strozzarlo.
Non posso. È una fase obbligata e necessaria.
Devo soltanto resistere.
Giungerà il candido Cigno scivolando sulla pelle dell’acqua. Giungerà, con tutti i suoi problemi, le ansie da revisione e le insicurezze che si trascina dietro.
Oh, giungerà. Ma non è questo il giorno.
E dopo di lui, sorgerà la Fenice, con la sua disperata resistenza e il suo fulgore dorato striato di rosso.
Sorgerà, ma non è questo il giorno.
Uno dopo l’altro verranno a dare il cambio al Corvo.
E poi?
E poi niente, si ricomincia.

La Grande Opera non è nel risultato, ma soltanto nell’opus. Appunto.

Lui disapprova la procrastinazione (immagine presa dal web)

Lui disapprova la procrastinazione (immagine presa dal web)

E adesso scusate, ma devo proprio lasciarvi. Devo dar da mangiare al pennuto: un migliaio di parole almeno, o non la smetterà più di gracchiare.

 


[1] Jung Carl G, Psicologia e alchimia, Bollati Boringhieri (2006, XIV-552 p., ill., brossura)

 

Di NaNoWriMo e Guardiani della Soglia

[Suggerimento musicale per la lettura. The Hobbit: Misty Mountain Cold]

 
Sono reduce da una “competizione contro me stessa” che mi ha in parte sfiancata e in parte entusiasmata. Spesso le due cose accadevano contemporaneamente.

Ho partecipato al NaNoWriMo (e vinto: qui sotto ne fornisco la prova), che sta per “National Novel Writing Month”.

Attestato

Attestato

Si tratta di una sfida a cui partecipano centinaia di migliaia di persone in tutto il mondo.
In breve, si devono scrivere 50.000 parole di un romanzo in un mese.
Non si tratta di finirlo, o di scrivere un capolavoro: soltanto 50.000 parole di una informe bozza che potrebbe essere la larva da cui far sviluppare, con l’aggiunta di ulteriori parole e un paio di riscritture (facciamo anche tre o quattro), una farfalla.
Cosa si vince, se si arriva alla fine?
Quello che i monaci zen cercano di ottenere in anni di meditazione e preghiere: una vittoria su se stessi.

A parte sconti per applicazioni di scrittura, acquisto libri, eccetera, infatti, il contest ha l’unico obiettivo di dimostrare a noi stessi che possiamo farcela.
C’è un bel gruppo di sostegno su facebook e un colorato forum sul sito, dove altri NaNos come me si sono sfogati nei momenti di difficoltà, dubbio e stanchezza, ricevendo l’incoraggiamento degli altri concorrenti in un bell’ esempio di sportività tra scrittori.
Perché, diciamocelo, a scoraggiarci sono buoni tutti.
E i più bravi a farlo, siamo noi stessi.

Ho terminato la mia personale sfida, contro ogni mia previsione, con dieci giorni di anticipo. Nonostante gli spostamenti in lungo e in largo per l’Italia e le difficoltà oggettive che ho dovuto affrontare in questo freddo mese di Novembre, ce l’ho fatta.

L’ho fatto. Ne vado fiera.

Non importa se quello che ho scritto è illeggibile. E’ soltanto una prima stesura. Citando Hemingway “la prima bozza di qualsiasi cosa è merda”.
Concordo.
Scrivere è, infatti, riscrivere.

In questo mese di scrittura forsennata, ho notato un incremento delle mie ansie proporzionato al numero di parole buttate giù.
E più le combattevo, più loro aumentavano.
E più scrivevo, più loro aumentavano.
Soprattutto di sera.
Un paio di notti, confesso, non mi hanno fatto chiudere occhio.
Finché, una notte in cui mi tormentavano con accanita ferocia, ho avuto una illuminazione.
Che sciocca a non capirlo prima.
Subito dopo, sono crollata in un profondo sonno ristoratore.
Quello che ho capito è che più forza mettono loro nell’accanirsi contro di me, più io so di essere sulla strada giusta. E l’ho capito grazie a Joseph Campbell.

Le mie ansie avevano la forma di un Guardiano della Soglia.

Nel suo brillante lavoro “L’eroe dai mille volti”[1], Campbell sostiene che gli archetipi individuati da Jung (di cui era grande stimatore) condividono la struttura dei miti (delle leggende e delle fiabe) di ogni cultura del mondo.
E’ il monomito, come egli lo definisce, in cui ogni personaggio che ricalca un archetipo cambia nome e aspetto, ma mai funzione (un lavoro che fa il paio  con “Morfologia della fiaba” e “Le radici storiche dei racconti di magia” del formalista russo Vladimir Propp, di cui ho parlato brevemente qui).

Il Guardiano della Soglia è uno degli archetipi.
Come il nome stesso indica, difende un passaggio oltre il quale c’è esattamente ciò che noi desideriamo.
La sua caratteristica principale è quella di essere alimentato dalle paure di chi lo affronta: più abbiamo paura di lui, più diventa forte.

Come spezzare la catena?
Rudolf Steiner, filosofo e fondatore dell’Antroposofia, ce ne parla nel suo “La Scienza Occulta nelle sue linee generali“[2], dove dice che Il Guardiano viene superato solo quando si riesce a fargli assumere una forma più amichevole.

Il molliccio. Questa la capiranno solo i fan di Harry Potter.

Il molliccio. Questa la capiranno solo i fan di Harry Potter.

I Guardiani non sono lì per terrorizzarci senza un motivo. Come dicevo sopra, infatti, ogni archetipo ha una precisa funzione.
Essi ci proteggono da noi stessi, dai nostri fallimenti.

Julia Cameron ne “La via dell’artista”[3], lo chiama brillantemente “Il Censore”.
Il Censore ci sussurra frasi meravigliose quando meno ce lo aspettiamo, quando siamo in fila alla cassa del supermercato, laviamo i pavimenti o siamo sotto la doccia.
A me, sempre prima di addormentarmi.
Borbotta con la sua vocina: “Lo chiami scrivere quello? Dai, dimmi che è uno scherzo, su. Non conosci nemmeno la punteggiatura. Se non ce l’hai fatta fino ad adesso non ce la farai mai. Non sai nemmeno come si formatta un testo. Ehi, e la chiami trama quella schifezza immonda che hai buttato giù? Informe come un’anguilla. A nessuno interesserà ciò che scrivi. E poi, sei troppo vecchia per questa roba, non si campa d’aria. Dammi retta, getta la spugna.”

E la cosa interessante del Guardiano/Censore, è che lo fa per il nostro bene!

Sissignore: cerca di distruggerci per proteggerci. Interviene tutte quelle volte che usciamo dalla nostra comfort zone, quando ci dedichiamo alle cose che contano davvero per noi, che ci fanno sentire vivi, ma mettono a repentaglio la stabilità e l’equilibrio di ciò che abbiamo raggiunto.
Il Censore è inserito nell’area sinistra del cervello, quella dedicata alla sopravvivenza. E’ un residuo della parte incaricata di decidere se fosse sicuro per noi lasciare la foresta e andare fuori. Il nostro Guardiano/Censore confonde ogni nostro idea creativa con una bestia pericolosa. Le uniche cose che gli piacciono sono quelle che ha già visto prima. E per molte volte.

Cose sicure. La routine. La regolarità.
Il divano accogliente, la canottiera lana fuori e cotone dentro, il garage sotto casa, il caffè delle otto e il tè delle cinque.
Ascoltate il vostro Censore e vi dirà che qualsiasi cosa originale (e nuova) è sbagliata. E pericolosa. E che vi conviene non farla, se non volete rovinare la vostra vita.
Ma ciò è falso.
Qualsiasi cosa ci dica, non è mai, mai, mai, e ripeto mai (l’ho già detto, mai?) la verità.
Ma come neutralizzarlo? Come zittirlo? Si può sconfiggerlo?

Ho buone notizie. Si può fare.

Ovviamente ci vuole molta pratica, e una buona dose di pazienza.
E’ come un braccio di ferro tra uno che si allena da trent’ anni (o quant’è l’età della costruzione della nostra personalità) e uno che è appena nato (il nostro desiderio creativo, a cui non è mai stato dato sufficiente spazio).
Quando crediamo di averlo annichilito ecco che, per non essere riconosciuto, ritorna con un’altra forma.
Non è la scrittura il problema, dice, è quella lavatrice che non può proprio attendere. Ma cos’era quell’articolo scontato su Amazon che hai intravisto in un annuncio pubblicitario due mesi fa? E lavati quei capelli, per l’amor del cielo. Devi. Hai chiamato tua madre/fidanzato/amica del cuore? Si aspettano che tu lo faccia. Vuoi deluderli? Sei un’ingrata. E l’amico delle scuole elementari, eh? da quant’è che non lo senti? Perché non lo chiami adesso?

E se tutto ciò non dovesse bastare ecco che va a ripescare nella memoria un vecchio ricordo doloroso. Un rimpianto. O un senso di colpa (in verità, questi ultimi sono i suoi preferiti) per qualcosa accaduto cinque, dieci, quindici anni fa. Sentiti in colpa, dice. Soffri. Piangi. Fatti salire l’ansia ed espiaAdesso.
Tutto, purché tu metta giù quella maledetta penna!

È davvero un infame.

La Cameron suggerisce, tra i vari esercizi, di farne una caricatura da appendere di fronte alla nostra scrivania.
Un disegno da guardare ogni volta che apre quella bocca immonda per tirarci secchiate d’acqua fredda.
Ricordo che all’epoca, quando leggevo “La via dell’artista”, proprio sotto al disegno del mio personale Censore (che ha un dente solo e i brufoli sul naso), scrissi a mano “Non fai paura proprio a nessuno”.
In effetti, a posteriori, vi dirò: mi fa un po’ pena (e cercherò di ricordarmelo stasera quando, prima che io riesca a prendere sonno, mi sussurrerà le sue solite, gentili frasi di incoraggiamento).
Il Guardiano della Soglia è lì per verificare quanto, davvero, teniamo a qualcosa.

La sfinge di Tebe. Un altro simpatico Guardiano.

La sfinge di Tebe. Un altro simpatico Guardiano.

Il nostro desiderio è forte abbastanza da fornirci ciò che ci occorre per affrontare il Drago?
E non per ucciderlo (seppur brontolone, è sempre un nostro alleato, dopotutto), ma per rassicurarlo.
Ci mette alla prova: sapremo superarla?
Sonda la nostra volontà e, in un certo senso, la rinforza.
E più noi ci addentriamo nel reame dell’incerto, più lui tenta di impedirci di passare.
È un nemico solo all’apparenza.
Il Guardiano della Soglia, siamo noi. O meglio: è una parte di noi, i nostri demoni interiori. Le paure, le ferite, le debolezze.

Abbiatene cura, ha soltanto paura. Lo fa per proteggerci.

Joseph Campbelli dice che questa resistenza è una fonte d’energia. Il Guardiano va incorporato. E’ un’arma nelle nostre mani.
Un aspetto di noi con cui dobbiamo confrontarci e fare pace, una volta per tutte.
Se l’eroe ha la peggio col Guardiano, dice lo studioso, è soltanto perché non ha saputo abbandonare le sue illusioni.
Ed è al Guardiano che si riferisce Natalie Goldberg in “Scrivere Zen”[4] quando dice:
“Tenete la mano in movimento, non cancellate, non preoccupatevi dell’ortografia, della punteggiatura e della grammatica, perdete il controllo. Non pensate, non fatevi invischiare dalla logica, puntate alla giugulare. Se scrivendo viene fuori qualcosa che vi fa paura o vi fa sentire esposti, tuffatevici dentro. Probabilmente è carico di energia.”

Ma addomesticare un Drago non è cosa da tutti. Ci vuole tenacia, perseveranza, pazienza e una buona dose di follia.
E vi dirò di più: il divertimento è tutto lì.

Cosa mi ha dato dunque questo NaNoWriMo?
Oltre alla forza di lanciare qualche bistecca farcita di sedativo al Guardiano della Soglia così da permettermi di superare i cancelli senza timore, mi ha ricordato che, di qualsiasi cosa si tratti, se non costa niente farla, allora non vale la pena farla.

Sdentato, il mio Guardiano, e io. Ormai (quasi) buoni amici: mi porta dove nessun altro va

Sdentato, il mio Guardiano, e io. Ormai (quasi) buoni amici: mi porta dove nessun altro va

Buona sfida a tutti!

 


[1] Campbell J., L’Eroe dai mille volti, ed. Guanda (Marzo,  2000)
[2] Steiner R., La scienza occulta, Ed. Antroposofica Editrice (Aprile, 2005)
[3] Cameron G., La via dell’artista, ed. Longanesi (Gennaio, 1998)
[4]  Goldberg N., Scrivere zen, ed. Astrolabio Ubaldini, (1987)

La macchina del tempo, ovvero “Il Bibliomotocarro” del maestro Antonio la Cava, e un sogno da realizzare.

[Suggerimento musicale per la lettura: La vita gaia-G. Coggi]

 

“Nella vita tutto si fa col gioco,
niente si fa per gioco”
Sir Robert Baden-Powell, fondatore dello scautismo

 

Oggi voglio raccontarvi una storia che parla di un potente stregone, del suo carro magico, e di come abbia insegnato ai suoi piccoli apprendisti a viaggiare nel tempo.

Questa storia ha inizio in estate, in un torrido pomeriggio di agosto.

Fa molto caldo, nella mia terra natia, a Ferrandina, in Lucania.
Sono tornata per fare visita ai miei e per godere della calma di questo piccolo paese nascosto tra i calanchi bollenti. Per caso, mi è capitato tra le mani un quaderno di esercizi. Un mio quaderno delle scuole elementari che mia madre aveva custodito.
Avevo appena sei anni, e scrivevo l’alfabeto.

È così che comincia la storia, con una telefonata al mio maestro delle scuole elementari, Antonio la Cava, più bonariamente conosciuto in paese come “il maestro Tonino”. Gli ho proposto di incontrarci, per parlare e per fare qualche foto al suo Bibliomotocarro.
Erano passati più di vent’anni dall’ultima volta che ci eravamo visti.

L’appuntamento è a villa Pinocchio, un piccolo parco dedicato all’infanzia.

Quando è arrivato, al suono della marcia ‘La vita gaia’, i bambini presenti sono stati catturati dalla sua magia. Hanno smesso di giocare a pallone, hanno abbandonato le bici per terra, e si sono avvicinati a quella straordinaria biblioteca itinerante.

Il maestro in pensione è saltato giù con sorprendente agilità, ha aperto le porte di quell’incantato luogo-non luogo e ognuno di loro ha scelto un libro per sé. Alcuni si sono seduti sulle panchine e hanno iniziato a sfogliarlo, altri lo hanno riposto negli zainetti, come se fosse uno scrigno del tesoro da aprire a casa, e hanno ripreso a giocare. Nessuno di loro ha lasciato il nominativo e il maestro non ha annotato alcuna data, né titolo. L’ho guardato con aria interrogativa, e lui sorridendo mi ha risposto: La fiducia è un valore che va insegnato con l’esempio, non a parole. Io mi fido di loro, e loro ricambiano. Nessun bambino mi ha mai rubato un libro.
Lo so, conosco il suo metodo educativo, essendo stata io stessa sua alunna molti, molti anni fa. Lui aveva tutti i capelli neri, all’epoca, e la giacca. Adesso ha i capelli lunghi, e canuti, e indossa pantaloni colorati, ma i modi sono gli stessi di sempre. Il suo sorriso, pure.

Ci siamo seduti a chiacchierare, ma sono arrivati altri bambini che hanno portato i loro amici a prendere un libro, e lui si è alzato per aiutarli a scegliere, in base all’età, o ai gusti, o al carattere. L’ho osservato passare in rassegna i titoli dei libri affastellati nella sua biblioteca con le ruote, e soffermarsi su quello giusto. Mi ha ricordato un personaggio della commedia dell’arte, un commediante fuoriuscito dal romanzo ‘Il capitan Fracassa’, proprio quel capo comico del carro di Tespi, Erode il Tiranno, l’omaccione dall’aspetto burbero ma dall’ animo generoso e mite. È lui che conduce la compagnia di comici nel carrozzone colorato e rumoroso, viaggiando in lungo e in largo per strade sgangherate e solitarie.
Per inciso, quel libro me lo prestò proprio il maestro Tonino, tanti anni fa.

Nel frattempo è arrivato Leo Fabbrizio, bravissimo fotografo e mio amico, al quale ho chiesto di fare qualche foto al bibliomotocarro, e a noi. Ci mettiamo d’accordo sul posto in cui scattarle, e ci avviamo. Il maestro mi chiede di fargli compagnia, e salgo su quel motocarro trasformato in biblioteca mobile.

Il suo progetto è semplice, di una semplicità che cozza con la crescente complessità degli stili di vita occidentali. Portare il libro nei paesini che non hanno una libreria. Gratuitamente.
Contrapporre la lentezza alla velocità, e il silenzio al rumore.
“Ma come”, direbbero i malpensanti, “nell’epoca della post-modernità, in cui tutto vola e fugge, in cui il webdomina la vita di ognuno, e la rete offre tutto ciò che si potrebbe desiderare, c’è ancora bisogno di libri trasportati su un’Ape che non supera i 45 km orari?”
La mia risposta è: sì, ora più che mai.
Perché navigare nel web è importante, ma più importante ancora è avere un molo di partenza, e uno di arrivo. E questo molo dal quale noi tutti dovremmo partire, è il libro.
Che niente può sostituire.

La piccola-grande biblioteca itinerante, foto di Leo Fabbrizio

La piccola-grande biblioteca itinerante, foto di Leo Fabbrizio

Il bibliomotocarro, all’interno, è piccolo, ma comodo. Quando passiamo per le vie del paese alcuni sollevano la mano per salutarci.
Il mio maestro è sempre stato un anticonformista. Eravamo gli unici a non avere l’obbligo di indossare il grembiule “per non essere uniformati”. Si atteneva poco ai programmi ministeriali, e riteneva impossibile (parola sua) insegnare la geografia nello spazio limitato da quattro pareti che era la classe. Invece di farci imparare i nomi dei laghi principali dell’Italia, chiamava l’autobus cittadino (guidato da mio padre), e ci portava alla diga.
Laggiù, in mezzo al fango e ai girini, ci spiegava come la grandezza del genio umano, e le tecniche dell’ingegneria, imbrigliavano la forza dell’acqua. Noi la vedevamo, quella grandezza, con le bocche aperte e gli occhi spalancati, e lo assillavamo di domande. Cresceva in noi l’amore per la conoscenza. La scuola, ce la faceva dal vivo.
Eravamo la classe che stava meno in classe.

Ci insegnava con il gioco, ci insegnava la meraviglia, la curiosità per ciò che ancora non conoscevamo. Ci sarà tempo, diceva ai miei genitori quando c’erano gli incontri annuali, per riempire il secchio. Ora dobbiamo accendere il fuoco.
E la mattina fremevo d’impazienza quando mia madre ci metteva più del dovuto a farmi le trecce. Volevo andare a scuola, e volevo andarci presto.

Mentre scorrazziamo per le strade sconnesse di campagna, la sua voce mi porta indietro nel tempo.
Alcuni miei compagni avevano dei caratteri irrequieti. Non si applicavano granché, e difficilmente imparavano le nozioni fondamentali. Ma per ognuno di loro, il maestro aveva una parola di incoraggiamento. Sempre. Troverai la tua strada, non avere timore, diceva. Devi solo capire cosa ti piace, e presto o tardi lo capirai.
Aveva fiducia in noi. Me lo ricordo bene, perché c’ero. Ci chiamava ‘fanciulli’, che è un termine forse un po’ desueto, ma molto poetico, che mi è rimasto molto caro.

Presi dai nostri problemi quotidiani, dalle faccende urgenti della vita, a volte dimentichiamo le cose importanti, quelle più vere. Dimentichiamo di essere riconoscenti per le cose essenziali, che diamo per scontate, come il saper leggere.
Che tutti noi sappiamo e possiamo leggere è una conquista della modernità. La possibilità di apprendere il pensiero di uomini straordinari, le loro idee, la loro intelligenza, fa di noi degli esseri liberi. Dovremmo tutti essere riconoscenti ai nostri maestri delle scuole elementari.
Ancor più se, oltre a insegnarci a leggere (che già di per sé è un debito che non potremo mai estinguere), ci hanno insegnato ad amare la lettura. A me è successo.
Questo amore è diventato parte integrante della mia esistenza. I libri sono stati, e sono tuttora, il mio rifugio. Tutto ha avuto inizio quasi trent’anni fa.

La mia classe con il maestro. Io sono la quarta da sinistra, in piedi, con il maglione a righe bianche e rosse

La mia classe con il maestro. Io sono la quarta da sinistra, in piedi, con il maglione a righe bianche e rosse

La mia classe era ampia e spaziosa, e le larghe vetrate davano sulla strada principale e sugli alti alberi che si spogliavano e ricoprivano di foglie col volgere delle stagioni.
Quando leggevo goffamente, aiutandomi con il mio dito paffuto di bambina, il maestro mi si avvicinava e mi diceva (in qualsiasi modo io avessi letto): brava. Adesso rileggi, e fa’ attenzione alla punteggiatura. Le virgole e i punti sono sempre bistrattati, nessuno li nota mai, ma tu fa’ loro compagnia. Non li abbandonare, dai loro considerazione. Vedi questa virgola, questa qui che hai appena passato, è una piccola pausa. Vuole che ti fermi un istante, e le fai l’occhiolino. Il punto no, il punto è un po’ presuntuoso, vuole che ti fermi. E gli stringi la mano. Hanno bisogno di coccole, come tutti.
Io leggevo, e prendevo a cuore la punteggiatura. Ci passavo interi pomeriggi a dare alla punteggiatura ciò che il resto del mondo dimenticava di darle: considerazione.

Mi sembra ieri che quest’uomo appassionato si sedeva accanto alla bambina con le trecce.
Vedi Rosanna, un libro non è fatto solo da parole infilate una dietro l’altra. La lettura, è musica. Ogni frase ha un suo ritmo, dei passi che ti spinge a fare. E noi, noi che leggiamo, danziamo su questa sinfonia. E le parole ci portano lontano, lontano, in altri mondi. Viaggiamo nel tempo, e non lo facciamo in una fredda navicella spaziale, legati con la cintura. Lo facciamo danzando. Trova la musica, e troverai la magia.

E io la trovai.

Un pomeriggio di un inverno rigido di venticinque anni fa, mio padre mi portò un libro preso all’oratorio.
Era da poca passata l’ora di pranzo. La mia casa era silenziosa, i miei fratelli erano fuori a giocare. Lo aprii e cominciai a leggerlo, e sentii la musica.
Quando lo terminai era sera inoltrata, e la casa era piena di gente. I miei zii e cugini erano venuti a farci visita. I miei fratelli erano rientrati e c’era un gran chiasso, ma io non li avevo sentiti! Mi erano passati accanto e mi avevano accarezzata. Non li avevo sentiti entrare, salutarmi e chiacchierare. Ero completamente ed irrimediabilmente persa in quella storia, e non ero lì con loro. Ero in Inghilterra, e fuori non c’erano automobili, ma carrozze.
Il romanzo era “Un canto di Natale”, di Dickens, e io lo amai con tutto il cuore.
Fu il mio primo viaggio nel tempo.
Confesso di non aver mai imparato le tabelline, davvero, ma da allora non mi sono più fermata: ho viaggiato in lungo e in largo. All’età di dieci anni ero già stata in Francia, con Cosetta de I miserabili; in Russia, dove avevo pianto commossa il destino di Anna Karenina; poi di nuovo in Inghilterra, per fare amicizia con David Copperfield, e poi ancora nell’Oceano Atlantico, a contare casse di rhum ne L’isola del tesoro.

Nelle mutevoli vicende della vita il piacere della lettura non mi ha mai abbandonata.
Ho cambiato tutto, crescendo: lavori, amici, luoghi. Solo una cosa è rimasta costante, sempre: l’amore per i libri. Sono stati palestre di libertà, e conforto nei momenti bui.
Quando studiavo all’università e tornavo a Ferrandina da Roma, avevo con me due borse: una per i vestiti, l’altra per i libri da leggere. Adesso ho un e-reader, più pratico negli spostamenti, che non sostituisce i manoscritti cartacei, ma li affianca.
Un giaccone non era adatto a me se non aveva le tasche abbastanza ampie da contenere un libro, e quando divenni adulta nessuna borsetta a baguette, per quanto fosse alla moda, andava bene se non era abbastanza larga per un romanzo.
Ho davvero vissuto mille vite, e viaggiato nel tempo e nello spazio, come mi aveva promesso il mio maestro, tanti anni prima.
Non conosco i nomi di tutti i laghi d’Italia, e non conosco i nomi di tutti i capoluoghi di provincia, e non mi è mai servito saperli a memoria.
Quello che mi è servito imparare davvero, io l’ho avuto.

La voce del maestro è sempre la stessa. Mi parla di quando era bambino lui, di come leggeva alla luce di una sola candela. Di come fosse convinto che fosse il fuoco del camino a ispirargli piccole poesie che lui, poi, riconoscente, riconsegnava alla fiamma. Si ricorda di ognuno di noi, mi dice di quanto fossimo una bella classe. Mi racconta di me, di come ero, di quanta allegria portassi, e un po’ mi rattristo al pensiero che la vita, a tratti, l’ha spenta, quell’allegria.

Arriviamo nel posto concordato, un belvedere sul piccolo paese in cui sono cresciuta, e Leo, nel suo solito modo gentile, ci scatta qualche foto.

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Il maestro Tonino, il bibliomotocarro, e io, poco prima di andare via. Foto di Leo Fabbrizio.

Sul web la sua biblioteca itinerante è diventata famosa. Molti programmi televisivi e giornali ne hanno parlato, perfino Oltreoceano; dozzine di articoli hanno fatto il giro della rete.

Pluripremiato, perfino in Campidoglio con il premio Simpatia, è una celebrità, il maestro Tonino, ma lontano da qui.

Non sono molti a sapere di quanto si parli di lui, di come sia giustamente citato ad esempio da seguire. Deve essere difficile possedere una personalità così eccentrica ed affascinante in un paese così piccolo. Ci vogliono profondità e coraggio per essere se stessi sempre, e il maestro Tonino ne ha sempre avuti, dell’una e dell’altro. Ed è per rendere merito a questo che io voglio umilmente esprimergli tutta la mia stima e la mia infinita gratitudine.

Al ritorno, mentre mi accompagnava a casa, il maestro mi ha accennato un suo progetto: fare il giro d’Italia con il bibliomotocarro (tutte le informazioni qui). Portare ancora ai bambini la gioia di leggere, oggi come allora, percorrendo tutto lo stivale con la sua Ape che, lo ripeto, raggiunge una velocità massima di 45 km/h.

Invito tutti color che vogliono, e possono, ad aderire all’iniziativa, per rendere reale questo sogno, ed aiutare il maestro a portare la sua saggezza e il suo fuoco a tutti i bambini d’Italia.
Riporto il suo personale appello:
“il giro d’Italia in Bibliomotocarro è come il GIRO CICLISTICO: con tappe di partenza e di arrivo; per realizzarlo occorrono persone, associazioni, pro-loco, librerie, altro, distribuite su tutto il territorio nazionale (almeno una in ogni regione), disposte ad organizzare un evento o un’iniziativa di promozione del libro e ad ospitare nella notte il Bibliomotocarro. Quando saranno arrivate tutte le disponibilità ad ospitare per una TAPPA D’ARRIVO il Biblomotocarro, l’organizzazione del Giro stilerà il calendario possibile, tenendo conto delle richieste pervenute rispetto alle date indicate: certo, non è semplice, ma è possibile e, comunque, vale la pena provarci. Allora avanzate le richieste, indicando le vostre date preferite (più di una per agevolare il lavoro di sintesi). Per le spese di viaggio troveremo una soluzione, magari uno sponsor o più di uno. Intanto mi affascina l’idea che fino a ieri sembrava un sogno, oggi appare una possibilità: E SE DOMANI FOSSE REALTA’?”

Se lo fosse, sarebbe una realtà meravigliosa.
È una cosa che ha valore, una magia. Credetemi.
Io lo so, perché sono stata una sua apprendista, e l’ho imparata.

Per info e contatti
Sito: www.ilbibliomotocarro.com

mail: ilbibliomotocarro@gmail.com
Te.: 3313130303

 

La quarta parola del mago: TACERE, e la creatività.

[Suggerimento musicale per la lettura: H. Zimmer_A hard teacher]

 

Ed eccoci giunti all’ultima delle quattro parole del mago. Dopo sapereosare e volere,  è il momento di TACERE.

Secondo Eliphas Levi tacere è “una discrezione che nulla può inquinare o corrompere”.
Credo che la linea di divisione tra “realtà” e “immaginazione” sia più sottile di quanto siamo disposti ad ammettere.
Il nostro inconscio non fa alcuna differenza tra realizzare e dire di aver realizzato.
Se diciamoparliamo e spieghiamo i nostri progetti, per il nostro inconscio sarà come averli già realizzati. Che gli altri ci critichino o ci lodino, per la nostra essenza più profonda sarà come aver già partorito la nostra creazione, e poco importerà se sarà solo un embrione: avremo comunque avuto la nostra ricompensa.
Sedersi a un tavolo, tutti i giorni alla stessa ora, far “propria tutta la noia”, come scriveva Auden nella sua poesia “Il romanziere”(1), e cercare di dare un senso compiuto alla nostra creatura sarà ancora più arduo e monotono: chi vuole scrivere due volte lo stesso romanzo?
Inoltre, mostrare prematuramente un progetto a qualcuno, compresi coloro che ci vogliono bene, equivale a piazzare un bambino su una bici quando è ancora incapace di camminare.
Qualsiasi critica, seppur in buona fede, è capace di distruggere le nostre migliori buone intenzioni.

G. G. Marquez alla scrivania

G. G. Marquez alla scrivania

In “Vivere per raccontarla”, Gabriel Garcia Marquez, riferendosi a un consiglio che gli diede Ramón Gómez de la Serna, scrive:
“Ma quello che seguii sempre alla lettera fu la frase con cui quel pomeriggio si congedò da me:
«la ringrazio per la sua deferenza, e in cambio le darò un consiglio: non mostri mai a nessuno la versione provvisoria di quello che sta scrivendo».”(2)
I giudizi altrui, la loro disapprovazione, il biasimo, anche la loro opinione più gentile, ci fanno cadere preda del vittimismo e alimentano la mancanza di fiducia in noi stessi. Usare le critiche come alibi ci deresponsabilizza. Ci autocommiseriamo, sabotandoci. Questo atteggiamento va sconfitto, colpendolo proprio laddove è più forte: nel bisogno che abbiamo di essere compresi, accettati, amati.

Essere discreti significa non esporre il fianco. Non contaminare la creazione, che è un atto sacro, con desideri narcisistici. In fin dei conti, faccio ciò che faccio non per pavoneggiarmi, ma perché mi è indispensabile farlo.

Perciò SAPERE, e spingersi oltre il conosciuto.
OSARE, avendo il coraggio di desiderare.
VOLERE, con disciplina, costanza, impegno.
TACERE, per proteggere la propria visione finché non sarà forte abbastanza da affrontare il mondo.

Ecco cos’è, la magia. Così facile, così difficile.

Un esercizio utile è, alla sera, ripensare alla nostra giornata. Con chi abbiamo parlato dei nostri progetti, delle nostre aspirazioni? cosa avremmo potuto evitare di dire? lo abbiamo fatto per puro desiderio narcisistico o per altro? e cosa è questo “altro”? cosa ha provocato, in noi, il fatto di averne parlato?

Viandante sul mare di nebbia, Caspar D. Friedrich

Viandante sul mare di nebbia, Caspar D. Friedrich

 


(1)Appuntato al talento come a un’uniforme,
/il grado dei poeti è noto a tutti;
/stupirci come un temporale possono,
/morire tanto giovani, per anni viver soli.//Possono scatenarsi come ussari: ma lui deve/
liberarsi del suo dono puerile e apprendere
/a esser complesso e semplice, a esser uno
/che nessuno si sogna di seguire.//Per realizzare il più facile dei suoi voti,/
deve infatti far sua tutta la noia,/
prono agli ovvi lamenti dell’ amore, tra i Giusti//esser giusto, tra i Luridi essere pure lurido,/
e, se può, nel suo debole Io deve soffrire/
senza intendere tutti i misfatti dell’Uomo.

(2) Gabriel García Márquez, Vivere per raccontarla, Edizioni Mondadori (Scrittori Italiani e Stranieri). Traduzione di Angelo Morino.

 

La terza parola del mago: VOLERE, e la creatività.

[Suggerimento musicale per la lettura: L.Einaudi_Primavera]

 
 
Dopo “sapere” e “osare”, la terza parola del mago è VOLERE.

Secondo Eliphas Levi volere è “avere una volontà che nulla può spezzare”.
A mio avviso la volontà è una questione di autostima. Esercitare la paziente costanza dell’esercizio ripetuto significa credere non solo in ciò che si fa, ma anche in ciò che si vale.
Io valgo il tempo, la fatica e il rischio di fallire.
Nella sua autobiografia Agatha Christie confessò: “c’è stato un momento in cui sono passata da dilettante a professionista. Mi sono assunta l’onere di una professione, che è scrivere anche quando non vuoi, non ti piace ciò che scrivi e non scrivi particolarmente bene” (1).

Agatha Christie

Agatha Christie

Ripetere lo stesso gesto, tutti i giorni, con qualsiasi condizione emotiva o di salute, facendo ciò che noi stessi abbiamo desiderato e deciso di voler fare, ecco cos’è VOLERE.

Scrivere un romanzo non ha nulla di romantico. Si tratta di infilare una parola dopo l’altra, sia quando questa parola ce l’abbiamo, sia quando proprio non sappiamo dove pescarla. Significa strappare intere pagine scritte male, perché comunque andava fatto. Significa imparare a creare senza attendere l’ispirazione, a rispettare una scadenza che noi stessi ci siamo dati, costi quel che costi. Perché ciò che facciamo ha valore, noi abbiamo valore.

Se non sono disposto a tanto, probabilmente è perché non mi stimo. Non credo in me, nelle mie capacità. Dubito del mio valore, e del mio ingegno. E allora qualsiasi altra cosa ha la precedenza su di me: i panni sporchi da lavare, quella telefonata alla cugina, la chiacchierata con l’amica che ha il cuore infranto.
Non basta osare: il passo successivo è altrettanto importante, perché altrimenti non sarò disposto a pagare alcun prezzo per qualcosa che non sono capace di stimare.
“Il talento vale poco. Ciò che conta è la disciplina”, diceva Andre Dubus (2).
Il temperamento artistico vale poco se non è supportato da disciplina, pazienza, cura e costanza.
Realizzare la visione che si ha dentro è possibile. Basta VOLERE.

Un buon esercizio è scegliere uno dei desideri formulati nel precedente esercizio e provare a strutturare tutto il processo che serve per realizzarlo. Dare una disciplina al proprio tempo, ordinarlo in modo che sia al nostro servizio per aiutarci a rendere reali e vive le nostre visioni.

 


(1) Agatha Christie, La mia vita, collana Oscar scrittori del Novecento, Mondadori.
(2) Olivia Carr Edenfield, Conversations with Andre Dubus (Literary Conversations), University Press of Mississippi (August 1, 2013)

 

La seconda parola del mago: OSARE, e la creatività.

[Suggerimento musicale per la lettura: R. Cacciapaglia_ Lux libera nos]

 
 
Dopo “sapere”, di cui scrivo qui, la seconda delle quattro parole del mago è OSARE.

Secondo Eliphas Levi, osare è “un coraggio che nulla può far vacillare”.
“Non sei capace”, “è troppo tardi per te”, “questo progetto è troppo ambizioso”, “sei brava ma non hai talento”, “pensa alle cose serie”: tutti ci siamo sentiti dire (e ci siamo detti) una di queste frasi almeno una volta nella vita, soprattutto in coincidenza dell’impegno profuso in un lavoro creativo.

Io mi arrabbio.
No, dico davvero: mi arrabbio con chi mi dice queste cose. Sublimo il sentimento distruttivo della rabbia e lo uso a mio favore, utilizzandolo per capire quando è il momento di dire “basta”.  E visto che ci sono, mi arrabbio anche con me stessa tutte le volte che la mia voce interiore censoria me le sussurra a tradimento.
Osare è desiderare qualcosa che ancora non ho ma che, alla luce della conoscenza acquisita, posso formulare.
È un fuoco che arde.
Le voci continuano: “potrei farlo, ma non ho tempo”, oppure “sarei capace, ma non posso permettermelo”.
Non è così.
Il “non posso” è sempre un “non voglio”. E non voglio, perché ho paura.

Per volere, che è la terza parola del mago, è necessario superare la paura, afferrare il coraggio a due mani e concedersi il diritto di desiderare.

La vita non è quella che ci insegnano, o quella che crediamo. Per me la vita è ciò che della vita facciamo.

Dopo aver accumulato sapienza, è necessario ritrovare il proprio potere personale e fare di tutto per favorire la propulsione in avanti dei propri desideri.

William Murray scriveva, citando Goethe: “C’è una verità elementare, la cui ignoranza uccide innumerevoli idee e splendidi piani: nel momento in cui uno si impegna a fondo, anche la provvidenza allora si muove. Infinite cose accadono per aiutarlo, cose che altrimenti mai sarebbero avvenute. Ho imparato un profondo rispetto per una frase di Goethe: Qualunque cosa tu possa fare, o sognare di poter fare, incominciala. L’audacia ha in sé genio, potere, magia. Incomincia adesso.”(1)
Per far fluire la magia è necessario avere il coraggio di desiderare, “un coraggio che nulla può far vacillare”, credere in se stessi sempre, e OSARE.
Un esercizio utile per me è pensare, di tanto in tanto, a cinque cose che vorrei e che non ho. Cinque cose che desidero davvero, materiali e immateriali. Chiedermi perché le desidero, cosa rappresentano per me e così via a ritroso, fino alla radice che alimenta il desiderio.

(1) William Hutchison Murray, “The Scottish Himalayan Expedition” (1951). La frase di Goethe a cui si riferisce proviene da una traduzione delle righe 214-30 del Faust ad opera di John Auster nel 1835. (Londra, Cassell, 1835, p.20).

Friedrich, "Luna nascente sul mare"

Friedrich, “Luna nascente sul mare”

 
 

La prima parola del mago: SAPERE, e la creatività.

[Suggerimento musicale per la lettura: Harry Potter, In Noctem]

 

Come scrivevo in questo post, quattro sono le parole del mago, quattro parole alla base di ogni atto creativo.

La prima è SAPERE.

Secondo Eliphas Levi, il sapere è “un’intelligenza illuminata dallo studio”.
“Intelligenza” deriva dal verbo intelligĕre, “capire”.

Intelligĕre è una contrazione del verbo latino legĕre, “leggere”, con l’avverbio intus, “dentro”. Intelligente, quindi, è colui che “legge dentro”, che va oltre la superficie e raggiunge il significato delle cose, in profondità.
Per sapere, è necessario avere un’ attitudine ad andare oltre l’apparenza delle cose, del già dato, del conosciuto.

Tolstoj alla scrivania

Tolstoj alla scrivania

Il 1 novembre 1864 Tolstoj scriveva a Fet: “non scrivo nulla, ma lavoro fino al tormento. Non vi potete figurare quanto sia difficile questo lavoro preventivo di aratura profonda del campo su cui dovrò seminare. Meditare e ripensare tutto ciò che può accadere a tutti i futuri personaggi della presente opera, assai vasta, e riflettere su milioni di combinazioni possibili, per poi sceglierne la milionesima parte, è tremendamente arduo. E di questo io mi occupo”.(1)
L’opera era “Guerra e pace” e lo scrittore impiegò cinque anni a scriverla.
Emilio Salgari, il creatore di Sandokan, non visitò mai la Malesia, le isole dei Caraibi o l’India, ma le studiò attraverso le enciclopedie, le riviste di viaggi e i libri scovati nelle biblioteche di Verona e Torino. Scrisse più di 80 libri, la maggior parte dei quali ambientati in luoghi che non vide mai.
Prima di creare qualsiasi cosa, bisogna SAPERE, e sapere è anche esperire. Vivere.
Se non si è mai amato nessuno, come si potrà scrivere dell’amore? se non si è mai fallito, come si potrà trasmettere ai propri simili il dolore della perdita?

Sapere non è facile. Richiede, come tributi, pezzi di sé.
Solo se si è disposti a lasciare il vecchio per il nuovo, a mettere in discussione le certezze, le sicurezze, il tepore del conosciuto, si può conoscere davvero.
Perdere pezzi di sé è la conditio sine qua non di qualsiasi atto creativo.
Tolstoj cambiò molte volte l’impianto del suo romanzo e mentre scriveva studiava le cronache, le lettere, le testimonianze della guerra di cui voleva raccontare.
La contessa Tolstoj annottava nel suo diario: “Lévocka (diminutivo familiare di Lev) in tutto questo inverno è irritato, scrive tra le lacrime e con agitazione”.(2)
Se non si crea “con agitazione” e perché non si ha nulla da perdere, non si sta mettendo in campo la cosa più importante: la possibilità di perdere le proprie certezze, la sicurezza del conosciuto, il benessere di ciò che è familiare.
Non si sta andando oltre, non si studia, non si esperisce. Non si SA.

Un esercizio utile è quello di imporsi, almeno una volta a settimana, di dedicare del tempo alla lettura di un romanzo, di un saggio, visitare una città o scoprire angoli nuovi di quella in cui si vive, chiacchierare con qualcuno facendosi raccontare esperienze diverse dalle proprie, ricordi, nuovi punti di vista.

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(1) TOLSTOJ, L., Guerra e pace, Roma, Gherardo Casini Edizioni Periodiche, Gennaio1966, pag. 8 dell’ Introduzione.
(2) Ibidem, pag. 11 dell’ Introduzione.

 

Le quattro parole del mago e la creazione artistica

[Suggerimento musicale per la lettura: Harry Potter, Main theme]

 

SAPERE, OSAREVOLERETACERE: queste sono le quattro parole del mago.”
Eliphas Levi, “Il Dogma e il Rituale dell’Alta Magia”

 
 

Eliphas Levi, pseudonimo di Alphonse Louis Costant, fu uno dei più noti studiosi di esoterismo dell’Ottocento.

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Foto di Eliphas Levi

Fu lui a stabilire, per la prima volta, un rapporto fra le 22 lettere dell’alfabeto ebraico e i 22 Arcani Maggiori dei Tarocchi, considerando le figure come una “pratica” (sono ironica) enciclopedia di tutti i dogmi religiosi, dai più antichi ai più moderni.
E fu sempre lui a definirli “Arcani Maggiori” per la prima volta.
Le sue idee (originali o prese in prestito) sulla magia furono (e sono) un punto di riferimento per tutti gli studiosi di esoterismo del mondo.
Secondo Levi, “Per raggiungere il sanctum regnum, vale a dire la sapienza e il potere dei maghi, vi sono quattro condizioni indispensabili: un’intelligenza illuminata dallo studio, un coraggio che nulla può far vacillare, una volontà che nulla può spezzare, e una discrezione che nulla può inquinare o corrompere. SAPERE, OSARE, VOLERE, TACERE: queste sono le quattro parole del mago…”

Mentre riflettevo su questa frase bevendo il mio caffè mattutino, ho improvvisamente realizzato che quelle esposte da Levi sono quattro condizioni indispensabili non solo per produrre una creazione artistica, un romanzo nel mio caso, ma ogni opera tout-court.
Chiunque crei qualcosa, usando l’ingegno, la ragione, la logica o l’intuito, prima di realizzarla sul piano materiale, la tira fuori da una dimensione invisibile: Inconscio collettivo, Akasha, Logos, Iperuranio, Mondo degli spiriti o Dio che si voglia chiamarlo.
Prima non c’è nulla, poi appare qualcosa, in principio soltanto dentro di noi, poi fuori, attraverso un lavoro di materializzazione paziente. Questo processo avviene attraverso quattro passaggi, sintetizzabili nelle quattro parole del mago: “Sapere, osare, volere e tacere”.

Lo spiegherò in quattro post, dedicati ognuno a una parola. Tornate a leggermi la settimana prossima, se vi interessa sapere come si fanno gli incantesimi.
(Se vi interessano i post relativi li trovate qui: sapere, osare, volere, tacere).

Vanitas con libri, mappamondi, strumenti musicali, candela e clessidra, Edwaert Collier_1662

Vanitas con libri, mappamondi, strumenti musicali, candela e clessidra, Edwaert Collier_1662


 

Ginevra e il lago degli artisti

[Suggerimento musicale per la lettura: Swan lake_Tchaikovsky]

 

“L’uomo è nato libero, ma ovunque è in catene
Jean Jacques Rousseau

 

Ginevra giace sul lato sud-ovest del lago Lemano, abbandonata ai sogni delle dolci correnti e vegliata dal solido Monte Bianco che, amorevole, la protegge.

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Cinque mesi, cinque: questo il tempo che trascorrerò insieme a lei, cercando di carpirne le visioni. Nel frattempo, l’obiettivo è chiudere la prima stesura del mio romanzo ed editarlo fino a quando non sarà diventato scorrevole. Ovvero ad libitum.

Non mi soffermerò sulle duecento organizzazioni internazionali che hanno sede qui, né all’incredibile miscuglio di lingue e razze che convivono in questa piccola città.

Non mi pronuncerò sulla sua storia, sul suo ruolo nell’Europa, né farò digressioni sulla sua cucina o sulla famigerata fondue. Poco lontano, ad ovest, c’è il CERN al quale si potrebbe riservare una trattazione a parte.

Non ne scriverò perché non sono queste le cose che hanno catturate per prime la mia attenzione.
C’è qualcosa, qui, che non riesco ad afferrare ma che mi affascina e mi commuove oltre ogni limite.

Mi riferisco al lago.

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È lui il vero cuore di questo pezzo di mondo. Un gioiello d’acqua pulitissima incastonato a 370 e passa metri di altitudine tra le Alpi e il Giura, e bucato dal Rodano e dall’Arve, i suoi due principali corsi d’acqua.
Quando si cerca “Ginevra” sul web si trovano informazioni contrastanti: è bellissima ma noiosa, è viva ma fredda, è cosmopolita ma diffidente.
Io non so come sia questa città: ci sono arrivata tre settimane fa ma ancora mi sfugge la sua natura.

Di certo qui manca la colorata confusione di Roma, sostituita da una efficienza proverbiale. Insomma: a Ginevra ti suonano col clacson solo se fai un’infrazione e non per farti sbrigare se scatta il semaforo verde.

La temperatura è un’altalena.

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Quando esce il sole fa un caldo terribile, stemperato da un vento freddo e umido che arriva direttamente dalle Alpi innevate, visibili da praticamente ovunque.

Quando il sole è coperto da fitti nuvoloni grigi il freddo entra nelle ossa e non si toglie più. Non resta altro da fare che entrare in una caféterie a bere quello che, per noi italiani, è un surrogato annacquato di caffè bollente. Alla modica cifra di 8 franchi svizzeri, ovvero 6 e passa euro.

Dimenticavo di scrivere che è la città più cara d’Europa.

La gente in compenso è cordiale, poliglotta e “moderna”. Un po’ troppo alla moda per i miei gusti ma i locali radical chic non mancano e sono frequentati da gente all’apparenza anticonvenzionale. Salvo poi rientrare in un sottoinsieme che ha delle proprie convenzioni, ma lasciamo perdere.

Io oggi voglio parlare del lago. È lui il vero protagonista, insieme a una natura ubertosa. I paesaggi sono magnifici e tolgono il fiato. Proprio ora mentre scrivo due nibbi svolazzano sul palazzo di fronte. Due nibbi. Due aquile. Come a Ferrandina, solo che laggiù abito quasi in campagna e in un territorio selvaggio e antico. Qui abito nel centro della città, nel cuore del mondo.

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Quando esco e vado in un parco a raccogliere le idee che proprio non vogliono stare dove dovrebbero, ovvero nella mia testa, mi viene incontro un pavone che fa la ruota o un daino che cerca cibo. Corvi ovunque: messaggeri di Odino. Giardini che sono un’esplosione di colori e di forme. E in fondo a tutto questo, a sorreggerlo e incorniciarlo lui: il lago più grande d’Europa.

Se esco, è lì che vado.

Sì, un giro nella città vecchia e nella cattedrale dove ha predicato Calvino lo faccio, di tanto in tanto. Qualche locale dove fanno la birra buona.

Ma il lago, signori miei, il lago…
È pura poesia.
Neppure il luccichio di banche, gioiellerie e orologerie può nulla contro gli sfavillanti riflessi del sole sulle increspature dell’acqua. Chiunque abbia un cuore sensibile percepirà l’ispirazione salire dall’acqua e insinuarsi dolcemente nelle arterie, fin su alla radice dei capelli. Una natura così volubile che ti illude di essere ovunque pur rimanendo immobile.

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Non credo di riuscire a tenere il conto di tutti gli artisti che hanno vissuto o hanno abitato per brevi periodi in questi luoghi, attratti da queste acque come api da una tinozza di miele.
Rousseau e Voltaire, i filosofi del secolo dell’Illuminismo, vissero a Ginevra. Il pensiero del primo ispirò la Rivoluzione francese.
Il compositore russo Igor Stravinsky e la sua famiglia si stabilirono a Montreux nel 1910 e poi a Clarens e Morges. Guardando il lago scrisse Le Sacre du Printemps, e fu durante le sue passeggiate lungo il Lago di Ginevra che fu ispirato nella composizione di Petrouchka.
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Tchaikovsky, la cui tomba ho visitato a San Pietroburgo (ne parlo in questo articolo), compose a Clarens, qui sul lago di Ginevra, il meraviglioso Concerto per violino e orchestra op 35 in soli 25 giorni. Quello trascorso su questo lago fu per lui un periodo terribile: si era infatti appena sposato, frustrando la propria omosessualità. Quell’opera ne è viva testimonianza.

Byron visse a Ginevra e proprio qui, a due passi da dove vivo io, scrisse Il Prigioniero di Chillon, due atti di Manfredi e il terzo canto di Childe Harold.

Nell’estate del 1816, Shelley andò in Svizzera per incontrare Lord Byron. Divennero amici, tanto da prendere casa vicino, sulle rive del Lago di Ginevra. Shelley scrisse che la vicinanza di Byron lo portò a raggiungere una propria espressione poetica e che, un giro in barca fatto insieme su questo incredibile lago, lo ispirò a scrivere l’Inno alla Bellezza Intellettuale.
In una sera di pioggia, mentre i due amici, Mary Wollestonecraft Godwin, moglie di Shelley, e John Polidori erano riuniti intorno a un caminetto, Byron lanciò la sfida che ognuno scrivesse il proprio racconto di fantasmi. Poco dopo, in un sogno ad occhi aperti, Mary concepì l’idea di Frankenstein. Lo terminò che non aveva ancora 19 anni sempre qui, nei pressi di queste acque chiare.

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Mentre passeggio sul Pont du Mont Blanc, davanti al Jet d’Eau, scopro che sono nello stesso molo in cui, nel 1898, Elisabetta di Baviera la principessa Sissi venne colpita a morte dall’anarchico Luigi Lucheni.

Qui visse e morì (e pretese di essere seppellito) Jorge Luis Borges. Credo che il suo spirito si aggiri ancora da queste parti e sussurri: “sono cieco e ignorante, ma intuisco che sono molte le strade”. lo so, lo sento, perché mi viene in mente questa frase ogni volta che guardo il lago.

Sempre a Ginevra Fëdor Dostoevskij scrisse L’idiota, e mi fa un certo effetto pensare che la mia strada si incrocia di nuovo con la sua (ancora non lo avete letto?l’articolo è sempre qui).

Non lontano dal centro della città Germaine de Staël, meglio nota come Madame de Staël, diede vita ad uno dei circoli culturali più illustri d’Europa. Da queste rive si oppose al regime napoleonico e influenzò Alessandro Manzoni.

Qui vissero per lunghi periodi Strauss e Goethe e proprio colui che ispirò in me il desiderio di scrivere, Charles Dickens fu guardando questo lago che scrisse il mio amatissimo Dombey e figlio, nel 1846.8
Tutti, tutti loro facevano lunghe passeggiate solitarie intorno a questo lago.
Compreso Victor Hugo, che si recò spesso a Montreux per trarre ispirazione. Nella stessa città Lev Tolstoj, nel 1857, scrisse I mendicanti.
Un secolo dopo fu il turno di Simenon: a lui il dolce mormorio delle acque suggerì di creare il commissario Maigret.
Il 15 aprile 1942, a Ginevra, moriva Musil e qui fu sepolto. Nello stesso cimitero dove si trovano PiagetBorges e Denis de Rougemont. Fu quest’ultimo che con L’amore e l’occidente cambiò il mio modo di intendere le relazioni amorose.

Queste stesse rive conobbero i tormenti di Joseph Conrad e di Hugo Pratt con Corto Maltese , e fu in una libreria di Ginevra che Céline abbordò Elizabeth Craig, la donna a cui dedicò Voyage9

Henry James fu letteralmente rapito da questa città, come racconta nel suo Viaggio in Svizzera, così come lo scrittore Julio Cortázar che scrisse Rayuela, Il gioco del mondo, definito l’antiromanzo.

Negli anni novanta Krzysztof Kieślowski girò a Ginevra Film Rosso, mentre anche David Bowie e Phil Collins eleggevano questo lago a loro tempio d’ispirazione.

Tutti questi artisti, e molti altri, furono sensibili a questi luoghi, al loro commovente lirismo.

Intorno al bordo del lago si inanellano come perline su di un filo testimonianze del passaggio di scrittori, musicisti, poeti, pittori, creativi d’ogni risma.

Cinque mesi, cinque.
Non ho intenzione di perdermene nemmeno una, a cominciare da Montreux, paesino medievale particolarmente fecondo di ispirazione.
Sarà la mia prossima tappa.
Ci sono molte cose inspiegabili, qui, ma una è certa: questo lago ha un incanto che accompagna i sognatori, da sempre.
È stato così per tutti questi grandi del passato.
E se è stato così per loro…

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Il mio monolocale adibito a studiolo


 

Bombeiros, il libro.

Mezzanotte del 6 Ottobre, Cremona.
Un furgoncino giallo limone approda in piazza della Pace: dal retro compaiono sedie, tavolini e le prime copie di “Bombeiros”. È solo l’inizio.
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Dieci di mattina del 7 Ottobre: la sede di Tapirulan è invasa da scrittori, illustratori e curiosi. Bellissime le opere della mostra di illustrazioni pubblicate sul libro.
La sottoscritta ha provato autentico entusiasmo per quella legata al suo racconto (dal titolo La begonia), realizzata da Margherita Allegri. Eccola qui:

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“La begonia” interpretata da Margherita Allegri

Gli steli spinosi si arrotolano sulla protagonista e la
 intrappolano suo malgrado, mentre la figlia la guarda  impotente ed è
 molto, molto lontana l’uscita da quel mondo pieno di ricordi. 
Nel mio racconto volevo trasmettere come, quando si “perde” qualcuno,
 gli oggetti che gli appartenevano (o si condividevano), diventano 
delle trappole e tanto più si odiano quanto più chi ci ha lasciati le
 amava.
 La prima cosa che mi è saltata all’occhio è che nella  illustrazione non c’è nemmeno un oggetto,
 tranne uno: le piante. Simbolo di qualcosa che cresce e prospera
 nonostante l’avvizzimento del cuore di chi rimane.
Un bellissimo lavoro.
In bella mostra le prime copie di “Bombeiros”, tra un muffin, un succo di frutta e qualche chiacchiera per rompere il ghiaccio.

Bombeiros e Bombeiros limited edition

Bombeiros e Bombeiros limited edition

Ore undici: caserma dei vigili del fuoco (Bombeiros significa pompieri in portoghese) per la presentazione del libro.

Il racconto vincitore dal titolo “Eleonora” di Alessandro Sesto è davvero bello, ma devo dire che anche gli altri non sono da meno.

Una bella selezione fatta dalla giuria, presieduta dal simpaticissimo scrittore Gianluca Morozzi.

Gianluca Morozzi e io durante la presentazione de La Begonia

Gianluca Morozzi e io durante la presentazione de La Begonia

Gli autori, oltre a essere simpatici e gentili, sono ragazzi (e ragazze) piene di talento, come gli illustratori. Una bellissima giornata.
Ecco la foto di gruppo:

Gli autori, gli illustratori e i giurati del concorso

Gli autori, gli illustratori e i giurati del concorso

Una giornata ricca di letteratura e di bellezza, di quelle che non si dimenticano.
Un grazie a Fabio ToninelliAlberto CalorosiGuido Casamichiela e tutti i ragazzi di Tapirulan per aver messo in moto così tanta bella energia.
Bombeiros, per chi lo desidera, è disponibile anche al bookshop online.

Qui la fotogallery dell’evento.

Alla prossima!