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Montreux. “Smoke on the water” per Byron e “Il prigioniero di Chillon”

[Suggerimento musicale per la lettura: Deep purple_Smoke on the water]


 
We all came out to Montreux on the Lake Geneva shoreline
 to make records with a mobile.
We didn’t have much time Frank Zappa & the Mothers were at the best place around.
But some stupid with a flare gun burned the place to the ground Smoke on the water,
fire in the sky”
Deep Purple

 

Montreux.
Una località di villeggiatura sul lago Lemano che attira, da sempre, mucchi di artisti. Deve avere qualcosa di speciale, che facilita l’ispirazione o cose così.
Sono andata a verificare di persona.
Appena ci si avvicina con la macchina passando su un alto viadotto, il paesaggio è da togliere il fiato.

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Le prealpi si specchiano sulle acque vibranti e fiori multicolori a profusione si lanciano dalle finestre di qualsiasi abitazione, grande o piccola che sia.

A place du Marché, di fronte al mercato coperto, la prima cosa che mi colpisce è una statua di Freddie Mercury, alta circa 3 metri, rivolta verso il lago.

A pochi metri, ragazzi che fanno i tuffi e coppie che mangiano il gelato.
Ma cosa diavolo ci fa lì quella statua?

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Statua di Freddie Mercury a Montreux

La risposta è semplice: “We all came out to Montreux on the Lake Geneva shoreline”.

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Deep Purple (imamgine presa dal web)

È qui, ai Mountain Studios del Montreux Casino che i Queen incisero i loro album.
Il leggendario studio di proprietà della band dal 1979 al 1991, usato anche da Prince, dai Rolling Stones e da David Bowie.
Scopro che Freddie aveva comprato un appartamento in città e uno chalet nei dintorni, e che tuttora a settembre c’è un festival di musica rock, il Freddie Mercury Memorial della durata di tre giorni.
Nel 1971 i Deep Purple erano qui per incidere un album (me li immagino farsi il bagno sbronzi e strafatti tra gli sguardi atterriti delle signore con annesse carrozzine al seguito), quando nel casinò scoppiò un incendio.
Durante una esibizione di Frank Zappa.
Panico.
Gente disperata scappava via urlando mentre una bianca nube di fumo si allargava sulla città.
Loro, i Deep Purple, stavano passeggiando su questo stesso lungolago, e rimasero impressionati dalle forme del fumo su queste acque scure e buttarono giù, sul momento, un paio di strofe.
Il resto è storia della musica.

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Montreaux

L’incipit di Smoke on the water.
L’intuizione creativa si nutre del caso, si sa.
Giusto per non farci mancare niente, sempre sul lungolago, c’è un busto di Miles Davis.
Montreux è carina, niente di eccezionale. La parte vecchia è sul colle: il centro storico che ognuno si aspetta di trovare in una cittadina come questa. La gente si fa il bagno, nessuno schiamazzo, uccellini che quasi vengono a rubarti il gelato dalle mani.

Sul lungolago c’è una passeggiata fiorita bellissima che porta al meraviglioso castello di Chillon e questa è la mia seconda meta.

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Il castello di Chillon

Un gioiello. Davvero.
Risalente al XIII secolo.
Costruito dalla dinastia Savoia come simbolo del loro potere su queste terre, molto prima di espandersi verso la penisola italiana.

Particolare di uno dei cortili interni-Chillon

Particolare di uno dei cortili interni-Chillon

Tenuto benissimo, dalla torre alle camere affrescate, con tanto di mobilio medievale in legno e armature d’epoca.

Camera da letto

Camera da letto

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Interni-castello di Chillon

Oltre alle segrete gotiche mi hanno colpito le latrine (sì, proprio quelle), con pertugio ligneo affacciante dritto sul lago.
Un vento gelido proviene dal basso e lo sciabordio delle onde sulla roccia rimbomba nella stanza in modo assordante.
Non riesco a immaginare come possa essere  espletare i propri bisogni qui, d’inverno. Con la neve.

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Latrine sospese-Chillon

Nel 1816 lord Byron, insieme a Percy Bysshe Shelley, stava facendo una traversata in barca del lago quando fu colpito dall’architettura del Castello e decise di fermarsi a visitarlo.
Anche lui fu impressionato dai sotterrai di questo magnifico castello e soprattutto dalla storia di François de Bonivard, un monaco e politico ginevrino anti Savoia che vi fu imprigionato dal 1530 al 1536.
Sulla sua storia scrisse Il prigioniero di Chillon.
Dal nome del castello, appunto.

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Le prigioni-Chillon

C’è ancora il nome di Byron inciso con un chiodo sulla colonna alla quale assicurarono il prigioniero.

Firma di Byron sulla colonna a cui legarono de Bonivard

Firma di Byron sulla colonna a cui legarono de Bonivard

All’epoca, evidentemente, il vandalismo non era multato.

Entrata-Chillon

Entrata-Chillon

Nel 1762 Jean-Jacques Rousseau ambientò sempre nel castello una scena del romanzo Nouvelle Héloïsee sempre il castello è presente nel racconto Daisy Miller di Henry James, del 1878. Nei suoi diari, pare ne rimanesse fortemente impressionato anche Victor Hugo.

E ancora Alexandre Dumas, Vladimir Vladimirovič Nabokov (che ha una statua anche lui a Montreux, dove è sepolto) e Rainer Maria Rilke vissero e scrissero a Montreux.

I pittori William Turner e Gustave Courbert, nonché Eugene Delacroix dipinsero il castello sulle loro tele, quest’ultimo immortalando l’immagine eterna del sopracitato prigioniero.

Infine, un po’ a malincuore, vado via da questo piccolo paese magico.
Il viaggio di un’oretta in macchina ne è valso la pena. Non so perché fosse così alta la concentrazione di artisti, però mentre mi dirigevo al parcheggio ho pensato che mi sarebbe piaciuto trascorrere un paio di settimane qui.
Il lago pulito, il paesaggio mozzafiato, il lungolago su cui prendere un aperitivo al calar della sera. Una panacea per lo stress della vita moderna.
Forse era questo che cercavano, tutti loro. Calma e suggestioni, riposo e intuizioni.
E tutti, ma proprio tutti, in effetti ne ebbero parecchie dell’ una e delle altre.

Eugene Delacroix-Il prigioniero di Chillon

Eugene Delacroix-Il prigioniero di Chillon

Arrivederci Montreux.
Non addio, solo arrivederci.

 

Annecy e “I Misteri di Parigi”

[Suggerimento musicale per la lettura: Ludovico Einaudi_Primavera]

 

“[…] siffatte taverne, frequentate dalla feccia della popolazione parigina,
dove vi abbondano una schiuma di forzati usciti dal bagno, truffatori, ladri, barattieri.
Appena è stato commesso un delitto,
la polizia getta (se questo si può dire) una rete in quel fango,
e quasi sempre vi coglie i colpevoli.” 
 I misteri di Parigi

 

Ci deve essere una corrispondenza tra i luoghi e le persone. Gli uni influenzano gli altri, e viceversa. Non foss’altro per un atteggiamento o un’inclinazione, se non un’indole.
L’individuo, ogni individuo, è il risultato finale di una serie di concause. Ecco, tra queste io considero grandemente influente il luogo.

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Lago di Annecy

Che sia una giungla incontaminata o di cemento, un periferico entroterra campestre o il centro del cuore industrializzato dove batte la vita mondana, ogni luogo influenza gli umori e i pensieri di chi lo abita.

Questo è specialmente vero per gli artisti, o per tutti coloro i quali siano dotati di quel tipo di sensibilità fine che capta gli echi di influenze sottili.

Quando vado in una città nuova, mi chiedo sempre: chi ha vissuto, qui? Anzi, meglio: quale scrittore noto ha vissuto qui? Cosa ha scritto? Quando?

E mi ritrovo a indagare sul come e sul cosa deve averlo influenzato di quel luogo, e perché.

Sono stata ad Annecy, e ho scoperto che in questa piccola e ridente cittadina ha vissuto, oltre che Rousseau (per un breve periodo, ma di lui parlerò in un altro post), quello che è considerato un grandissimo scrittore: Eugène Sue.

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Parliamo della prima metà dell’Ottocento.  Altri tempi, altre sensibilità. Altro stile di scrittura, forse indigesta per molta parte dei miei contemporanei, ma sicuramente degna di attenzione.
Ricco parigino, gran viveur e donnaiolo, dilapidò la sua eredità entro i primi trent’anni della sua vita, e trascorse il resto a scrivere per poter campare.

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Tra i suoi romanzi più noti, L’Ebreo errante e I misteri di Parigi, pubblicato a puntate su un famoso quotidiano francese.
Il secondo, soprattutto, fu un incredibile successo editoriale.
Venne tradotto in molte lingue ancor prima di essere terminato.
Marx ammise di averlo non solo letto ma anche molto amato e Gramsci lo citò più volte nei suoi Quaderni del Carcere.
Fu durante la stesura di questo lavoro (copioso) che Sue si convertì al socialismo, per questo forse ciò che ne risultò fu una narrazione di critica sociale.
Ammetto candidamente di non averlo mai letto, ma per qualche singolare motivo salta sempre fuori nelle mie letture.
Devo assolutamente colmare questa lacuna, prima o poi.
So che è una mole di parole enorme, con numerosi personaggi e con eventi concatenati mai monotoni o banali, che si intrecciano nei bassifondi parigini.
Capostipite di quello che viene chiamato “romanzo d’appendice”, fu Il romanzo per Victor Hugo, che ne prese ispirazione per il suo I Miserabili e per Alexandre Dumas (padre) che a lui si ispirò per il suo Il conte di Montecristo.

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Da questo primo titolo derivarono tutti gli altri, come I Misteri di Marsiglia di Émile Zola, di Londra di Paul Féval (padre), di Firenzedi Carlo Collodi, di provincia di Honoré de Balzac, eccetera.

Tutti omaggi al primo grande capolavoro di Sue.
Insieme al successo crebbe l’odio di parte degli aristocratici per i suoi lavori di denuncia.

Il suo I misteri del Popolo fu pubblicato ne 1849 a puntate e in abbonamento postale, per sfuggire alla censura. Ma ciò non bastò a far passare il romanzo in sordina: la pubblicazione fu interrotta e il Sant’Uffizio lo mise, ovviamente, all’indice. Dopo molti anni, nel 1857, quando sembrava che potesse essere liberamente pubblicato, tutte le copie furono sequestrare e tipografo ed editore (l’amico di Sue Maurice Lachâtre) furono condannati. Appena pochi mesi prima della morte dello scrittore.

Tornando alla premessa, dunque mi chiedo: come può questo minuscolo paesino aver influenzato questo tipo di espressione artistica?
La risposta è semplice: in nessun modo.
Eugene Sue visse a Parigi, dove nacque, e si rifugiò qui solo nel 1851, quando aveva già terminato tutti i suoi romanzi, in seguito al colpo di Stato di Bonaparte.
Morì sei anni dopo, nel 1857.
Lo immagino passeggiare sulle rive di questo lago calmo, o tra le vie della città vecchia e fermarsi sul ponte da cui si vedono le prigioni.

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Le prigioni

Lo vedo ricordare la burrascosa sequenza delle vicende della sua vita, e riflettere su quella fine silenziosa e solitaria.
Già molto malato, si spense ad Annecy-le-Vieux all’età di cinquantatré anni.
La sua tomba si trova nel cimitero di Loverchy, ma ha iniziato a piovere e non ci sono andata. Peccato.
Adieu, Eugène. Mi avrebbe fatto molto piacere conoscerti, ne sono sicura.
Sarà per un’altra vita.

 
 

Borges e Musil, tra La battaglia di Maldon e L’uomo senza qualità

[Suggerimento musicale per la lettura: Mozart_Requiem]

 
L’animo sia tanto più fermo,
 il cuore più audace,
il coraggio tanto maggiore,
 quanto più diminuiscono le nostre forze.
La battaglia di Maldon, versi 312-316.

 
A Rue des Rois 10, a Ginevra, si trova il cimitero di Plainpalais.

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Un largo tappeto verde sotto cui riposano uomini e donne lì sepolti grazie a qualcosa per cui si sono distinti.
I nomi illustri sono parecchi; tra gli altri: Denis de Rougemont, Piaget, Calvino, la figlia di Dostoevskij e Griselidis Real la cui tomba vince il mio premio personale di “miglior epitaffio di sempre”:
“Scrittrice, pittrice, prostituta”.

Amen, sorella.

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Ci sarebbe molto da scrivere su ognuno di questi signori,  purtuttavia solo su due io voglio soffermarmi.
Il primo è Borges.
Alla tomba numero 735 riposa il grandissimo maestro, che visse a Ginevra quattro anni tra il 1914 e il 1918 durante la sua adolescenza e che ivi tornò in tarda età per curare alcuni problemi di salute.
Sulla pietra tombale era stato deposto appena qualche giorno prima un mazzo di fiori, accompagnato da un biglietto con su scritto da mano anonima la parola “Maestro” sotto la data.

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Sulla lapide, in alto, l’incisione con il nome: Jorge Luis Borges.
Più in basso la frase in antico inglese: “And ne forhtedon na” (Giammai con timore), estratta dal poema epico del X secolo (circa) “La battaglia di Maldon.”
Più sotto ancora un bassorilievo con sette guerrieri, spade sguainate, in procinto di buttarsi in combattimento.
Sotto di essi, vicino alla data di nascita e di morte 1899/1986, una piccola croce del Galles.
Nella parte posteriore sono riportati due versi della Saga di Völsunga, XIII secolo: “Hann tekr sverthit Gram okk legger i methal theira bert” (Egli prese la sua spada, Gram, e pose il nudo metallo tra i due).
Sotto di essi, come noterete dalla foto, una incisione di un drakkar vichingo.
Sotto il drakkar, la scritta: “De Ulrica a Javier Otalora“, due personaggi dei racconti borgesiani. Un saluto privato, a quanto pare, di Marìa Kodama, sua ex-alunna che divenne sua segretaria e, a poche settimane dalla morte, sua seconda moglie.

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Lapide di Borges, retro

La battaglia di Maldon è un poema breve in cui si descrive la sconfitta del conte Byrhtnoth (Beorhtnoth secondo Tolkien), capo di un manipolo di guerrieri inglesi uccisi nel 991 a Maldon, appunto, durante la difesa della piccola cittadina nella contea dell’Essex da una aggressione scandinava guidata da Olaf Tryggvason, bisnipote di quell’ Harald Bellachioma che fu primo re di Norvegia.
Non si conosce il nome dell’autore né il periodo esatto di creazione (probabilmente intorno all’anno mille) e soprattutto non si conosce l’inizio né la fine del componimento poetico perché il foglio esterno che lo racchiudeva è andato perduto. Il testo è stato a lungo studiato sia da Borges che da Tolkien, che ne riscrivono, in modi assai divergenti, un epilogo.
Lo scritto originale ci dice che Byrhtnoth concesse (Dio solo sa perché) ai nemici di guadare il fiume accordando loro il vantaggio strategico  di una battaglia in campo aperto. Il poema dice anche che lo fece perché i nemici, questa orda di selvaggi e terribili vichinghi, gli chiesero di comportarsi in modo “cavalleresco” e rinunciare al suo vantaggio in favore di una battaglia alla pari.
Ovviamente vinsero i norvegesi.
Il conte morì in battaglia e questo causò la fuga di una parte dell’esercito inglese mentre l’altra metà rimase a farsi uccidere restando a protezione del corpo del cadavere del loro signore, poiché l’ideale guerriero germanico imponeva che nessun valoroso poteva sopravvivere alla morte del proprio comandante.
La poesia/racconto breve di Borges, che si trova nella raccolta “La moneta di ferro”, ci mostra un “esercito” inglese composto da contadini e marinai poco avvezzi all’uso della spada che resistono con le unghie e con i denti ai terribili (e imbattibili) vichinghi.
Nell’interpretazione di Borges, i guerrieri inglesi affrontano il nemico consapevoli della propria sconfitta e il narratore della storia, il vecchio Aidan, raccomanda ai superstiti radunatisi ai margini di una fitta boscaglia (quella metà non fuggita via a gambe levate), di continuare a combattere nonostante tutto, proprio perché nessuno di loro può sopravvivere alla morte del proprio signore, in accordo all’ideale eroico germanico.
Come ci si aspetta da ogni eroe degno di questo nome, insomma: mai indietreggiare nemmeno davanti alla morte.
Da opposto versante parte l’interpretazione di Tolkien, che potrei definire speculare. Il professore inglese ne fa una questione di traduzione errata di un termine, esattamente dei versi 89-90:
“Allora il Conte,
mosso dall’orgoglio,
concesse fin troppo terreno
a quel popolo odioso”.
Il termine “orgoglio” nell’originale antico anglosassone è ofermod, e venne tradotto con il moderno overboldness, ovvero “audacia” o “spavalderia”: due termini che in italiano hanno accezioni decisamente differenti del medesimo concetto.

Su questa ambiguità si scagliò Tolkien, ritraducendo ofermod con overmastering pride, ovvero “smisurato orgoglio”, scegliendo in modo definitivo l’accezione meno eroica delle due.
In breve: secondo il professore l’errore fu del conte che, tutto preso da se stesso, non considerò con sufficiente cognizione la difficile situazione militare, condannando dunque a morte certa i suoi uomini.
Nello stesso saggio edito da Bompiani e curato da Wu Ming 4 “Il ritorno di Beorhtnoth figlio di Beorhthelm” figura un articolo monografico di Tom Shippey, il più grande studioso ed esperto di Tolkien, che rifiuta in modo categorico l’interpretazione filologica tolkieniana.
(A chi nutra interesse per le opere di Tolkien, segnalo l’ottimo sito della ArsT: Associazione romana studi Tolkieniani)
Come sia andata davvero, lo sanno solamente coloro che più non possono svelarcelo, ma anche per questo poema vale la regola che accompagna ogni testo letterario: esso è ciò che noi crediamo che esso sia.
Per Borges, che riposa sul quel prato curato e silenzioso, è l’emblema di coloro che restarono fedeli ai propri ideali nonostante l’amaro prezzo da pagare; esattamente come lui, al quale venne negato il premio Nobel per la fedeltà alle proprie idee conservatrici, tradizionali e filo-occidentali.
Pare che quando gli venne confidato che il premio era già nella sua tasca se solo avesse rinunciato a un viaggio in Cile (per conferenze e per ritirare una delle 23 lauree honoris causa assegnategli durante tutto l’arco della sua vita), rispose che allora partire sarebbe stata un’ottima idea.
Questo dimostra una volta di più che l’ambìto premio viene assegnato per motivi politici e (quasi) mai per esclusivo merito.
Per me, per quanto io possa valere, egli è stato uno dei più grandi scrittori del XX secolo, con o senza premio Nobel.
Riposa in pace, maestro.

Il secondo è Musil.

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Tomba di Musil

La sua pietra tombale è composta da due parallelepipedi affiancati. Sul più alto il suo volto scolpito ad opera di Bernard Bavaud,  sul più basso una targa:
“Ingegnere, scrittore, saggista e drammaturgo austriaco, vissuto a Ginevra da luglio 1939 ad aprile 1942”.
Più in basso una citazione da L’uomo senza qualità:
“se esiste un senso della realtà, allora ci dev’essere anche il senso della possibilità.”
Ammetto di non essere riuscita a digerire quello che è stato considerato il suo capolavoro (incompiuto), e di averlo abbandonato al primo volume. Il romanzo “L’uomo senza qualità”, interrotto al cap. 38 della terza parte, vuole essere (tra le altre cose) la sua personale critica alla società moderna.
Iniziato negli anni venti, ci lavorò fino alla fine dei suoi giorni non riuscendo a portarlo tuttavia a termine. Il primo volume ebbe un successo enorme. L’ultima parte fu pubblicata dalla sua vedova a proprie spese: quattordici capitoli (forse) conclusi e altre informazioni in forme di bozze.

Il romanzo è un labirinto, un viaggio nella sua mente di cui sfugge la trama e il senso ultimo, resi ancor più inafferrabili dalla sua tecnica espressiva.
Quest’opera paragonabile all’Ulisse di Joyce e Alla ricerca del tempo perduto di Proust, purtuttavia se ne discosta per via della fredda e distaccata analisi.

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Lapide di Musil

Sarà che non leggo mai i libri di Joyce dopo aver pranzato (il flusso di coscienza richiede tutta la mia attenzione) né quelli di Proust in primavera (il suo stile mi fa aumentare l’orticaria allergica), Musil non mi ha mai trasmesso qualcosa su cui poter tornare successivamente con il pensiero.

Nemmeno lavando i piatti o spazzando il pavimento, ovvero quando lo stato di concentrazione è massimo.

Unica eccezione “I turbamenti del giovane Törless”, romanzo di formazione non convenzionale, in cui il protagonista, il giovane cadetto omonimo, vive una tensione tutta interiore tesa al raggiungimento di equilibrio psicologico attraversato da dubbi sulla sessualità (avrà anche lui un rapporto omosessuale con un compagno di classe costretto da un ricatto ad opera di altri due compagni) e sulla morale come concetto che permea l’individuo nella società.
Un romanzo che mi piacque abbastanza, senza diventare per me pietra miliare: forse perché letto ormai in età adulta.
O forse per un eccessivo svilimento della vittima che, con ogni probabilità, non vessata a sufficienza, lo scrittore vuole anche compiacente e masochista.
Musil, a quanto è riportato nel diario, risultava antipatico e scontroso (nonché fortemente disadattato), ma questo poco ha a che fare con il suo lavoro.
Forse.
O forse no.
Ciò che rimane con certezza è il suo grande contributo alla letteratura mondiale e, benché personalmente non lo apprezzi, non posso negarne la grandezza e non sorridere, rispondendo a me stessa con le sue parole incredibilmente evocative: “Chi voglia varcare senza inconvenienti una porta aperta deve tener presente che gli stipiti sono duri.”.

 
 

Ginevra e il lago degli artisti

[Suggerimento musicale per la lettura: Swan lake_Tchaikovsky]

 

“L’uomo è nato libero, ma ovunque è in catene
Jean Jacques Rousseau

 

Ginevra giace sul lato sud-ovest del lago Lemano, abbandonata ai sogni delle dolci correnti e vegliata dal solido Monte Bianco che, amorevole, la protegge.

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Cinque mesi, cinque: questo il tempo che trascorrerò insieme a lei, cercando di carpirne le visioni. Nel frattempo, l’obiettivo è chiudere la prima stesura del mio romanzo ed editarlo fino a quando non sarà diventato scorrevole. Ovvero ad libitum.

Non mi soffermerò sulle duecento organizzazioni internazionali che hanno sede qui, né all’incredibile miscuglio di lingue e razze che convivono in questa piccola città.

Non mi pronuncerò sulla sua storia, sul suo ruolo nell’Europa, né farò digressioni sulla sua cucina o sulla famigerata fondue. Poco lontano, ad ovest, c’è il CERN al quale si potrebbe riservare una trattazione a parte.

Non ne scriverò perché non sono queste le cose che hanno catturate per prime la mia attenzione.
C’è qualcosa, qui, che non riesco ad afferrare ma che mi affascina e mi commuove oltre ogni limite.

Mi riferisco al lago.

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È lui il vero cuore di questo pezzo di mondo. Un gioiello d’acqua pulitissima incastonato a 370 e passa metri di altitudine tra le Alpi e il Giura, e bucato dal Rodano e dall’Arve, i suoi due principali corsi d’acqua.
Quando si cerca “Ginevra” sul web si trovano informazioni contrastanti: è bellissima ma noiosa, è viva ma fredda, è cosmopolita ma diffidente.
Io non so come sia questa città: ci sono arrivata tre settimane fa ma ancora mi sfugge la sua natura.

Di certo qui manca la colorata confusione di Roma, sostituita da una efficienza proverbiale. Insomma: a Ginevra ti suonano col clacson solo se fai un’infrazione e non per farti sbrigare se scatta il semaforo verde.

La temperatura è un’altalena.

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Quando esce il sole fa un caldo terribile, stemperato da un vento freddo e umido che arriva direttamente dalle Alpi innevate, visibili da praticamente ovunque.

Quando il sole è coperto da fitti nuvoloni grigi il freddo entra nelle ossa e non si toglie più. Non resta altro da fare che entrare in una caféterie a bere quello che, per noi italiani, è un surrogato annacquato di caffè bollente. Alla modica cifra di 8 franchi svizzeri, ovvero 6 e passa euro.

Dimenticavo di scrivere che è la città più cara d’Europa.

La gente in compenso è cordiale, poliglotta e “moderna”. Un po’ troppo alla moda per i miei gusti ma i locali radical chic non mancano e sono frequentati da gente all’apparenza anticonvenzionale. Salvo poi rientrare in un sottoinsieme che ha delle proprie convenzioni, ma lasciamo perdere.

Io oggi voglio parlare del lago. È lui il vero protagonista, insieme a una natura ubertosa. I paesaggi sono magnifici e tolgono il fiato. Proprio ora mentre scrivo due nibbi svolazzano sul palazzo di fronte. Due nibbi. Due aquile. Come a Ferrandina, solo che laggiù abito quasi in campagna e in un territorio selvaggio e antico. Qui abito nel centro della città, nel cuore del mondo.

4

Quando esco e vado in un parco a raccogliere le idee che proprio non vogliono stare dove dovrebbero, ovvero nella mia testa, mi viene incontro un pavone che fa la ruota o un daino che cerca cibo. Corvi ovunque: messaggeri di Odino. Giardini che sono un’esplosione di colori e di forme. E in fondo a tutto questo, a sorreggerlo e incorniciarlo lui: il lago più grande d’Europa.

Se esco, è lì che vado.

Sì, un giro nella città vecchia e nella cattedrale dove ha predicato Calvino lo faccio, di tanto in tanto. Qualche locale dove fanno la birra buona.

Ma il lago, signori miei, il lago…
È pura poesia.
Neppure il luccichio di banche, gioiellerie e orologerie può nulla contro gli sfavillanti riflessi del sole sulle increspature dell’acqua. Chiunque abbia un cuore sensibile percepirà l’ispirazione salire dall’acqua e insinuarsi dolcemente nelle arterie, fin su alla radice dei capelli. Una natura così volubile che ti illude di essere ovunque pur rimanendo immobile.

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Non credo di riuscire a tenere il conto di tutti gli artisti che hanno vissuto o hanno abitato per brevi periodi in questi luoghi, attratti da queste acque come api da una tinozza di miele.
Rousseau e Voltaire, i filosofi del secolo dell’Illuminismo, vissero a Ginevra. Il pensiero del primo ispirò la Rivoluzione francese.
Il compositore russo Igor Stravinsky e la sua famiglia si stabilirono a Montreux nel 1910 e poi a Clarens e Morges. Guardando il lago scrisse Le Sacre du Printemps, e fu durante le sue passeggiate lungo il Lago di Ginevra che fu ispirato nella composizione di Petrouchka.
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Tchaikovsky, la cui tomba ho visitato a San Pietroburgo (ne parlo in questo articolo), compose a Clarens, qui sul lago di Ginevra, il meraviglioso Concerto per violino e orchestra op 35 in soli 25 giorni. Quello trascorso su questo lago fu per lui un periodo terribile: si era infatti appena sposato, frustrando la propria omosessualità. Quell’opera ne è viva testimonianza.

Byron visse a Ginevra e proprio qui, a due passi da dove vivo io, scrisse Il Prigioniero di Chillon, due atti di Manfredi e il terzo canto di Childe Harold.

Nell’estate del 1816, Shelley andò in Svizzera per incontrare Lord Byron. Divennero amici, tanto da prendere casa vicino, sulle rive del Lago di Ginevra. Shelley scrisse che la vicinanza di Byron lo portò a raggiungere una propria espressione poetica e che, un giro in barca fatto insieme su questo incredibile lago, lo ispirò a scrivere l’Inno alla Bellezza Intellettuale.
In una sera di pioggia, mentre i due amici, Mary Wollestonecraft Godwin, moglie di Shelley, e John Polidori erano riuniti intorno a un caminetto, Byron lanciò la sfida che ognuno scrivesse il proprio racconto di fantasmi. Poco dopo, in un sogno ad occhi aperti, Mary concepì l’idea di Frankenstein. Lo terminò che non aveva ancora 19 anni sempre qui, nei pressi di queste acque chiare.

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Mentre passeggio sul Pont du Mont Blanc, davanti al Jet d’Eau, scopro che sono nello stesso molo in cui, nel 1898, Elisabetta di Baviera la principessa Sissi venne colpita a morte dall’anarchico Luigi Lucheni.

Qui visse e morì (e pretese di essere seppellito) Jorge Luis Borges. Credo che il suo spirito si aggiri ancora da queste parti e sussurri: “sono cieco e ignorante, ma intuisco che sono molte le strade”. lo so, lo sento, perché mi viene in mente questa frase ogni volta che guardo il lago.

Sempre a Ginevra Fëdor Dostoevskij scrisse L’idiota, e mi fa un certo effetto pensare che la mia strada si incrocia di nuovo con la sua (ancora non lo avete letto?l’articolo è sempre qui).

Non lontano dal centro della città Germaine de Staël, meglio nota come Madame de Staël, diede vita ad uno dei circoli culturali più illustri d’Europa. Da queste rive si oppose al regime napoleonico e influenzò Alessandro Manzoni.

Qui vissero per lunghi periodi Strauss e Goethe e proprio colui che ispirò in me il desiderio di scrivere, Charles Dickens fu guardando questo lago che scrisse il mio amatissimo Dombey e figlio, nel 1846.8
Tutti, tutti loro facevano lunghe passeggiate solitarie intorno a questo lago.
Compreso Victor Hugo, che si recò spesso a Montreux per trarre ispirazione. Nella stessa città Lev Tolstoj, nel 1857, scrisse I mendicanti.
Un secolo dopo fu il turno di Simenon: a lui il dolce mormorio delle acque suggerì di creare il commissario Maigret.
Il 15 aprile 1942, a Ginevra, moriva Musil e qui fu sepolto. Nello stesso cimitero dove si trovano PiagetBorges e Denis de Rougemont. Fu quest’ultimo che con L’amore e l’occidente cambiò il mio modo di intendere le relazioni amorose.

Queste stesse rive conobbero i tormenti di Joseph Conrad e di Hugo Pratt con Corto Maltese , e fu in una libreria di Ginevra che Céline abbordò Elizabeth Craig, la donna a cui dedicò Voyage9

Henry James fu letteralmente rapito da questa città, come racconta nel suo Viaggio in Svizzera, così come lo scrittore Julio Cortázar che scrisse Rayuela, Il gioco del mondo, definito l’antiromanzo.

Negli anni novanta Krzysztof Kieślowski girò a Ginevra Film Rosso, mentre anche David Bowie e Phil Collins eleggevano questo lago a loro tempio d’ispirazione.

Tutti questi artisti, e molti altri, furono sensibili a questi luoghi, al loro commovente lirismo.

Intorno al bordo del lago si inanellano come perline su di un filo testimonianze del passaggio di scrittori, musicisti, poeti, pittori, creativi d’ogni risma.

Cinque mesi, cinque.
Non ho intenzione di perdermene nemmeno una, a cominciare da Montreux, paesino medievale particolarmente fecondo di ispirazione.
Sarà la mia prossima tappa.
Ci sono molte cose inspiegabili, qui, ma una è certa: questo lago ha un incanto che accompagna i sognatori, da sempre.
È stato così per tutti questi grandi del passato.
E se è stato così per loro…

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Il mio monolocale adibito a studiolo


 

Fëdor Dostoevskij in Sankt Pieter Burkh

[Suggerimento musicale per la lettura. Tchaikovsky: Violin Concerto in D major, op. 35.]

Tutte le cose e tutto nel mondo è incompiuto, per l’uomo,
e nel frattempo il significato di tutte le cose del mondo
è racchiuso nell’uomo stesso.

_I fratelli Karamàzov_

 

Il vento gelido si infila nelle maniche del leggero giubbotto che indosso. Questo freddo nel cuore dell’estate mi ha colta impreparata, ma la gente di qui sembra esserci abituata. Con le mani intirizzite scrivo sul mio quaderno, aspettando nella celebre e malfamata piazza Sennaja la mia pivo Baltika, una delle birre più buone che io abbia mai bevuto, ovviamente autoctona.

1Sono nella straordinaria città di San Pietroburgo, a un passo dal Circolo Polare Artico, nella cerniera che unisce (e divide) Oriente e Occidente. Qui, più di tre secoli fa, un uomo megalomane e spietato, Pietro il Grande, prosciugò paludi e fanghiglie gelide e innalzò dighe e canali per fondare una città che permettesse alla Russia di dominare il Golfo di Finlandia.

Una città nata da un sogno, alimentata con il sangue di innumerevoli contadini e fatta prosperare da una dinastia monarchica leggendaria e spregiudicata: i Romanov.

Indescrivibile il contraccolpo emotivo, mentale e culturale che ho subìto all’arrivo; per una come me, nata tra i calanchi bollenti del mediterraneo e svezzata nella Roma dell’Impero, San Pietroburgo è IL Nord della vasta e affascinante taiga, delle nevi impietose, delle steppe attraversate da irrequieti nomadi, dei 30 gradi sottozero, dei vichinghi che diedero il nome a questa terra: i Rus’.

Ma sopra ogni altra cosa, questa terra è l’ambientazione delle centinaia di fiabe di Afanas’ev, lette e rilette nella mia infanzia, è la Russia di Tolstoj i cui romanzi mi emozionarono fino alle lacrime quando ero adolescente, di Vladimir Propp, il cui lavoro stimo e condivido, di Puškin e Lermontov e ancora Gogol’ e ČechovPasternakMajakovskijBulgakov e ancora e ancora.

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Statua di Puskin

Mentre l’aereo atterrava sotto un cielo plumbeo e gravido di nuvoloni grigi, non riuscivo a trattenere l’emozione all’idea di visitare una terra che tanta parte aveva avuto nella mia formazione.
La mia Pietroburgo, però, quella che ho scelto tra le tante possibili, è stata soprattutto quella letteraria di Fëdor Dostoevskij.

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Chiesa del Salvatore sul Sangue Versato

Tra una mèta e l’altra del turismo necessario e magnifico

– il Museo Russo, lo strabiliante e immenso Ermitage, la Kunstkamera, primo museo della Russia con le deformi e morbose mostruosità in formalina, la Cattedrale di Sant’Isacco, quella di Kazan, la fiabesca Chiesa del Salvatore sul Sangue Versato, l’Ammiragliato e tutto ciò che si può visitare in questa grandiosa città che si sviluppa sulla gigantesca prospettiva Nevskij –

ho inserito tutti i giorni un luogo “di Dostoevskij”.
Ho ripercorso tappa dopo tappa, come in un pellegrinaggio laico, i luoghi della sua vita, dei suoi romanzi, della sua prigionia e della sua morte, in un crescendo di emozioni che mi hanno lasciata stremata ed elettrizzata insieme.
La donna dai marcati tratti slavi interrompe il flusso di pensieri, ci porta la birra e ne dice il prezzo: in russo ovviamente. Qui l’inglese non lo parla nessuno e le indicazioni sono quasi tutte in cirillico. Per fortuna con me c’è Antonello che comprende e risponde in un russo stentato e simpatico accompagnato da gesti eloquenti. Ci fa comprendere che per la carne ci vuole ancora tempo: slow food, diremmo noi occidentali.

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Il Palazzo d’Inverno, sede del museo Ermitage

Nessun problema, non abbiamo nessuna fretta.

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Antonello sorseggia la sua birra e mi guarda scrivere, curioso, ma non ho ancora finito e finché non finisco ciò che scrivo è solo per me: mi godo questo momento di solitudine con il foglio, tra un sorso e l’altro di birra.

 

Dostoevskij nacque a Mosca, per cui non ci sono luoghi da cui partire circa la sua nascita, ma si trasferì in questa città a sedici anni. Qui sviluppò quella amata prosa densa, perfetta per i personaggi profondamente caratterizzati dei suoi romanzi, sviluppando la sua passione per l’introspezione, la filosofia e la spiritualità.

Sono partita da qui, da dove sono seduta ora: dal quartiere Sennaya.

Abito qua vicino e ci passo tutti i giorni e non manca momento in cui io non pensi a quel Mercato del Fieno (questo il suo significato) attorno al quale orbitava la San Pietroburgo di Fëdor: operai delle classi povere, contadini senza occupazione, borseggiatori, mendicanti, alcolizzati e puttane, l’intero universo di disperati che vivevano tra l’immondizia e i topi, ammassati come bestie in tuguri gelidi e inospitali.
Era qui che lui attingeva la materia che plasmava nelle sue storie, qui che passeggiava tra gli umili e i malfattori. Era questa la “sua” città.

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Piazza Sennaya

Da qualche anno la piazza è stata ristrutturata e mantiene un’aria più o meno rispettabile ma a pochi passi da essa, il suo animo cupo e misero è ancora tangibile e incredibilmente suggestivo.
Poche decine di metri a nord della piazza c’è vicolo Kaznacheyskaya: lo scrittore cambiò casa tre volte nello stesso pezzo di strada, al numero civico 1, al 9 e al 7 e proprio in quest’ultimo scrisse Delitto e castigoRaskolnikov, il “cattivo” del romanzo, passò “sotto la casa di Dostoevskij” per andare ad assassinare la vecchia usuraia.
E’ qui che la realtà e l’immaginazione si sono fuse per dare vita ai sogni.
Poco più a est, un altro vicolo incrocia questo dove visse lo scrittore: è vicolo Stolyarny, che nel romanzo è solo “Vicolo S…”, ed è proprio qui, all’ultimo piano del numero 5 che viveva il protagonista del romanzo Delitto e Castigo.
Dall’incipit del romanzo:

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Il num. 5 di vicolo Stolyarny (“Vicolo S…)

“All’inizio di un luglio straordinariamente caldo, verso sera, un giovane scese per strada dallo stanzino che aveva preso in affitto in vicolo S., e lentamente, come indeciso, si diresse verso il ponte K. Sulle scale riuscì a evitare l’incontro con la padrona di casa. Il suo stanzino era situato proprio sotto il tetto di un’alta casa a cinque piani, e ricordava più un armadio che un alloggio vero e proprio.”.

Ad angolo con questo vicolo, campeggia una statua dello scrittore e una iscrizione che recita:“Sul tragico destino di quanti vissero in questa parte di San Pietroburgo Dostoevskij ha poggiato le fondamenta della sua appassionata supplica per il bene di tutta l’umanità”.

Dai bassifondi di piazza Sennaya sono poi andata nell’ultima casa in cui visse lo scrittore, rimasta immutata da allora e visitabile per soli 160 rubli. Entrare nella casa in cui lui trascorse gli ultimi giorni della sua vita mi ha dato un fremito che rinuncio a trasferire a chi non lo prova già nel leggere queste parole.

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Il suo studio privato in cui scrisse I fratelli Karamazov

Qui scrisse lo splendido I fratelli karamazov (per il quale nutro un certo debole), aiutato dalla sua seconda moglie e stenografa Anna Griegorievna Snitkina.
Dostoevskij scriveva dalle 23.00 alle 5.00 del mattino, bevendo grandi quantità di tè nero per rimanere sveglio e fumando continuamente durante la stesura dei suoi lavori: nonostante la diagnosi di enfisema, non smise mai di fumare.

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La tabacchiera con le sigarette già pronte

Su un basso tavolino nell’anticamera del suo studio c’è ancora la tabacchiera che usava e una frase scritta a penna da sua figlia il giorno in cui lo scrittore morì: “oggi papà è morto”. Semplice e doloroso.

Dormiva fino a mezzogiorno, poi mangiava qualcosa e nel pomeriggio riceveva chiunque gli facesse richiesta di visita: non rifiutava mai nessuno. La sera la dedicava alla famiglia, alla quale teneva moltissimo cenando con i suoi familiari.
Poi, usciva nei bassifondi, a stretto contatto con la gente più miserevole.
Una stanza è adibita a museo: tutti i suoi oggetti, le foto dei suoi intimi amici (gli unici che ammetteva nel suo studio privato perché, diceva, gli dava fastidio se estranei toccavano le sue carte), le lettere, le cose a lui più care.

Da quel luogo silenzioso e profondo alla spavalda zona di Petrograd, altra tappa del “pellegrinaggio”, il passaggio non è semplice, ma doveroso.

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Superato un fossato accessibile solo percorrendo a piedi un ponte di legno, arriviamo sull’isola Zayachy. Qui è ormeggiato il celeberrimo incrociatore Aurora e qui sorge il primo nucleo di San Pietroburgo, il luogo in cui fu posta la prima pietra (compresa la capanna dove viveva il despota, poco più di un paio di spartane stanze di legno).La cattedrale accoglie le spoglie di tutti gli zar, da Pietro il Grande a Nicola II Romanov, assieme ai suoi figli e a sua moglie, deposti successivamente pare tra accese polemiche dei pietroburghesi legati al Bolscevismo e al mito di Lenin.
Tutt’attorno a questi complessi che accoglievano guardie e generali, si erge la Fortezza di Pietro e Paolo, imponente e antica, il cui  budello di stanze fredde e inospitali costituisce le prigioni.

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Qui fu imprigionato, torturato e ucciso (ingiustamente) davanti a suo padre, Aleksei, figlio di Pietro I, accusato di tradimento.

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La cella di Bakunin

Qui furono imprigianti Lev Trotsky (nella cella numero 60), Gorky, Bakunin e il fratello maggiore di Lenin, Aleksandr, oltre che Dostoevskij.

Nelle piccolissime stanze sferzate dal vento gelido del Circolo Polare Artico, con una sola feritoia in alto da cui entrava un filo di luce, senza nessun conforto e in assoluta solitudine, i detenuti impazzivano, si cospargevano di carosene e si davano fuoco. Cercavano di comunicare con un alfabeto inventato da loro, simil morse, battendo con le catene sul telaio dei letti di ferro per sconfiggere quell’isolamento doloroso condividendo il loro nome, le loro paure, gli incubi. Per farsi coraggio.
A quel tempo, Fëdor frequentava un gruppo di giovani liberi pensatori, il Circolo Petrasevskij. Nicola I li catturò, li imprigionò e li condannò a morte.
Dopo molti mesi trascorsi in quelle terribili prigioni, lo scrittore fu condotto al patibolo ma poco prima che i fucili puntati sparassero, giunse notizia di annullamento.

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La cella di Dostoevskij

In realtà si trattava di una messa in scena che servisse di lezione: Dostoevskij fu inviato ai lavori forzati in Siberia.
L’esperienza turbò profondamente lo scrittore che, appena poté fare ritorno alla sua amata città, graziato da Alessandro II, scrisse Memorie da una casa di morti, una sorta di diario di quei mesi di reclusione.

Infine, è con una nostalgica tristezza che percorriamo l’ultima tappa: imboccando Nevsky prospect fino al
suo tratto finale, dove si staglia l’imponente Monastero Aleksandr Nevsky, siamo arrivati nel luogo in cui riposa lo scrittore.
Il cimitero Tichvin trasmette un forte senso di pace.

Tra le lapidi e le statue, abbiamo scovato la tomba di Cajkovskij, un altro mentore che ha segnato la mia vita e al quale ho reso il mio sincero e commosso omaggio.

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Tomba di Caijkovskij

Con gran sorpresa, anche quella di Ivan Krylov, scrittore e favolista russo. Primo, usò per le sue favole la lingua popolare e le forme idiomatiche tipiche dei contadini e della povera gente, dando loro la dignità letteraria che avrebbe fatto scuola negli autori successivi.

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La lapide di Krylov

Ma è su quella di Dostoevskij che mi sono soffermata più di ogni altra, e alla quale sono ritornata più volte dopo ogni giro, come se, sapendo che era lì, avessi potuto parlargli o semplicemente ascoltarlo.
Ho reso un saluto silenzioso alle spoglie del maestro il cui spirito ha segnato la mia vita a così tanta distanza, in ogni senso.

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La lapide di Dostoevskij

La donna che non parla inglese arriva con un sorriso e due fumanti piatti di carne d’agnello e maiale. Tutto intorno è un brulicare di gente di ogni tipo, dai tratti somatici slavi e orientali, in un miscuglio di incredibile bellezza.

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Mi sistemo meglio sulla sedia arrugginita di piazza Sennaya e volgo lo sguardo tutt’intorno agli accattoni, agli ubriaconi e ai borseggiatori, alle contadine che vendono secchielli di mirtilli con il fazzoletto in testa, gli scarponi e le maglie di lana sdrucita.

Chiudo il quaderno e saluto lo spettro dello scrittore ringraziandolo per ogni cosa.

Bevo un sorso di birra e addento la bollente carne alla brace proprio come faceva Dostoevskij, un secolo fa, nello stesso posto, tra la stessa gente.
Spasiba, Fëdor. Con tutto il cuore

 

 

 

Salon du Livre de Montreuil, Paris.

Potrei dire che ho atteso a scrivere questo post per far decantare le mie impressioni, per farne aprire il bouquet come il vino buono, ma non lo farò.
Ho atteso perché non ho avuto il tempo di scriverlo prima.
Ho partecipato alla ventisettesima edizione del Salone del Libro e della presse Jeunesse di Montreuil a Parigi dal 30 novembre al 5 dicembre, con la mia cartellina sotto un braccio e tante speranze sotto l’altro.

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Ho condiviso questa bella e significativa esperienza con Laura Iorio,  Michela Burzo e Ilaria Ruggeri, illustratrici di indubbio talento: ho scritto tre storie per il pubblico “jeunesse”, e con loro ho incontrato direttori artistici delle più grandi e prestigiose case editrici francesi.

L’esperienza in fiera è stata foriera di insegnamenti: come ad esempio l’indirizzo opportuno del vestiario in fiera (solo cotone, o si rischia la disidratazione); il corretto atteggiamento da tenere con gli addetti al settore; la pazienza necessaria a lavorare in un ambiente in cui regnano come principi indiscussi centinaia di bambini scatenati e una “orrenda falange di pubescenti”.

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Scherzi a parte, la stanchezza è stata enorme, sia per le energie fisiche impiegate, sia per quelle emotive e mentali. A volte è stato esaltante e l’energia di ritorno mi ripagava delle difficoltà da superare, altre è stato necessario invece attingere alle mie riserve per stringere i denti e continuare a credere nei miei progetti.

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Michela alla fine della prima giornata di fiera

La fiera era dedicata al Circo, e l’atmosfera che ne derivava invogliava a creare. Gironzolare, tra un incontro e l’altro, in mezzo gli stand, osservare gli illustratori autografare e dedicare i propri libri, vedere i volti dei bambini entusiasti di questa o quella storia mi ha messo addosso una enorme voglia di scrivere. Se avessi potuto, mi sarei seduta a un angolino e avrei trascorso tutto il tempo a inventare nuovi mondi per quelle menti fertili. E l’ho anche fatto, buttando giù un incipit di una nuova storia (che faccio fatica a leggere per quanto è scarabocchiato), mentre attendevo di essere chiamata a un incontro con il direttore artistico di turno.

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La Senna e io

Ho presentato delle storie difficili: perché ne ho abbastanza della ennesima rivisitazione di Alice e delle principesse e dei cavalieri. Perché credo nella importanza di trasmettere messaggi di spessore, affinché il territorio intonso che sono i bambini e i ragazzi sia reso fertile. Perché credo fortemente che le storie vivano in coloro che le leggono, e meglio sia che vivano storie buone piuttosto che banalità e conformismo.

parigi_9Non so se ciò che abbiamo presentato sia piaciuto: forse si, forse no. Gli editori devono vendere, e danno al pubblico ciò che il pubblico chiede… ma non ne sono tanto sicura. Loro stessi innescano trend in ribasso, foraggiando bisogni superflui, all’altare dei quali i bambini imparano a sacrificare la propria vera essenza. Spero che qualche editore punti sulla novità e sulla qualità. Proprio qualche giorno fa pensavo che quando avevo dieci anni lessi David Copperfield, Un Canto di Natale, Anna Karenina, Guerra e Pace, I miserabili e tutta una serie di libri che amo molto tuttora e che mi hanno formata come persona, e che di “facile” non avevano nulla, e non posso (e non voglio) credere di averlo fatto solamente io, né di essere stata l’ultima a farlo. Vedremo.

Alla fine, un salto all’atelier in cui vive e lavora Laura insieme a Roberto RicciMatteo Simonacci e Simone Puccio: un saluto ai ragazzi italiani che, con grande professionalità e altrettanto grande talento, dedicano la propria vita al faticoso mondo dell’Arte inseguendo un sogno.

parigi_10Una dedica speciale per Urban, l’ultimo fumetto di Roberto Ricci, e poi via all’aereoporto e a Roma.