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Fëdor Dostoevskij in Sankt Pieter Burkh

[Suggerimento musicale per la lettura. Tchaikovsky: Violin Concerto in D major, op. 35.]

Tutte le cose e tutto nel mondo è incompiuto, per l’uomo,
e nel frattempo il significato di tutte le cose del mondo
è racchiuso nell’uomo stesso.

_I fratelli Karamàzov_

 

Il vento gelido si infila nelle maniche del leggero giubbotto che indosso. Questo freddo nel cuore dell’estate mi ha colta impreparata, ma la gente di qui sembra esserci abituata. Con le mani intirizzite scrivo sul mio quaderno, aspettando nella celebre e malfamata piazza Sennaja la mia pivo Baltika, una delle birre più buone che io abbia mai bevuto, ovviamente autoctona.

1Sono nella straordinaria città di San Pietroburgo, a un passo dal Circolo Polare Artico, nella cerniera che unisce (e divide) Oriente e Occidente. Qui, più di tre secoli fa, un uomo megalomane e spietato, Pietro il Grande, prosciugò paludi e fanghiglie gelide e innalzò dighe e canali per fondare una città che permettesse alla Russia di dominare il Golfo di Finlandia.

Una città nata da un sogno, alimentata con il sangue di innumerevoli contadini e fatta prosperare da una dinastia monarchica leggendaria e spregiudicata: i Romanov.

Indescrivibile il contraccolpo emotivo, mentale e culturale che ho subìto all’arrivo; per una come me, nata tra i calanchi bollenti del mediterraneo e svezzata nella Roma dell’Impero, San Pietroburgo è IL Nord della vasta e affascinante taiga, delle nevi impietose, delle steppe attraversate da irrequieti nomadi, dei 30 gradi sottozero, dei vichinghi che diedero il nome a questa terra: i Rus’.

Ma sopra ogni altra cosa, questa terra è l’ambientazione delle centinaia di fiabe di Afanas’ev, lette e rilette nella mia infanzia, è la Russia di Tolstoj i cui romanzi mi emozionarono fino alle lacrime quando ero adolescente, di Vladimir Propp, il cui lavoro stimo e condivido, di Puškin e Lermontov e ancora Gogol’ e ČechovPasternakMajakovskijBulgakov e ancora e ancora.

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Statua di Puskin

Mentre l’aereo atterrava sotto un cielo plumbeo e gravido di nuvoloni grigi, non riuscivo a trattenere l’emozione all’idea di visitare una terra che tanta parte aveva avuto nella mia formazione.
La mia Pietroburgo, però, quella che ho scelto tra le tante possibili, è stata soprattutto quella letteraria di Fëdor Dostoevskij.

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Chiesa del Salvatore sul Sangue Versato

Tra una mèta e l’altra del turismo necessario e magnifico

– il Museo Russo, lo strabiliante e immenso Ermitage, la Kunstkamera, primo museo della Russia con le deformi e morbose mostruosità in formalina, la Cattedrale di Sant’Isacco, quella di Kazan, la fiabesca Chiesa del Salvatore sul Sangue Versato, l’Ammiragliato e tutto ciò che si può visitare in questa grandiosa città che si sviluppa sulla gigantesca prospettiva Nevskij –

ho inserito tutti i giorni un luogo “di Dostoevskij”.
Ho ripercorso tappa dopo tappa, come in un pellegrinaggio laico, i luoghi della sua vita, dei suoi romanzi, della sua prigionia e della sua morte, in un crescendo di emozioni che mi hanno lasciata stremata ed elettrizzata insieme.
La donna dai marcati tratti slavi interrompe il flusso di pensieri, ci porta la birra e ne dice il prezzo: in russo ovviamente. Qui l’inglese non lo parla nessuno e le indicazioni sono quasi tutte in cirillico. Per fortuna con me c’è Antonello che comprende e risponde in un russo stentato e simpatico accompagnato da gesti eloquenti. Ci fa comprendere che per la carne ci vuole ancora tempo: slow food, diremmo noi occidentali.

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Il Palazzo d’Inverno, sede del museo Ermitage

Nessun problema, non abbiamo nessuna fretta.

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Antonello sorseggia la sua birra e mi guarda scrivere, curioso, ma non ho ancora finito e finché non finisco ciò che scrivo è solo per me: mi godo questo momento di solitudine con il foglio, tra un sorso e l’altro di birra.

 

Dostoevskij nacque a Mosca, per cui non ci sono luoghi da cui partire circa la sua nascita, ma si trasferì in questa città a sedici anni. Qui sviluppò quella amata prosa densa, perfetta per i personaggi profondamente caratterizzati dei suoi romanzi, sviluppando la sua passione per l’introspezione, la filosofia e la spiritualità.

Sono partita da qui, da dove sono seduta ora: dal quartiere Sennaya.

Abito qua vicino e ci passo tutti i giorni e non manca momento in cui io non pensi a quel Mercato del Fieno (questo il suo significato) attorno al quale orbitava la San Pietroburgo di Fëdor: operai delle classi povere, contadini senza occupazione, borseggiatori, mendicanti, alcolizzati e puttane, l’intero universo di disperati che vivevano tra l’immondizia e i topi, ammassati come bestie in tuguri gelidi e inospitali.
Era qui che lui attingeva la materia che plasmava nelle sue storie, qui che passeggiava tra gli umili e i malfattori. Era questa la “sua” città.

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Piazza Sennaya

Da qualche anno la piazza è stata ristrutturata e mantiene un’aria più o meno rispettabile ma a pochi passi da essa, il suo animo cupo e misero è ancora tangibile e incredibilmente suggestivo.
Poche decine di metri a nord della piazza c’è vicolo Kaznacheyskaya: lo scrittore cambiò casa tre volte nello stesso pezzo di strada, al numero civico 1, al 9 e al 7 e proprio in quest’ultimo scrisse Delitto e castigoRaskolnikov, il “cattivo” del romanzo, passò “sotto la casa di Dostoevskij” per andare ad assassinare la vecchia usuraia.
E’ qui che la realtà e l’immaginazione si sono fuse per dare vita ai sogni.
Poco più a est, un altro vicolo incrocia questo dove visse lo scrittore: è vicolo Stolyarny, che nel romanzo è solo “Vicolo S…”, ed è proprio qui, all’ultimo piano del numero 5 che viveva il protagonista del romanzo Delitto e Castigo.
Dall’incipit del romanzo:

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Il num. 5 di vicolo Stolyarny (“Vicolo S…)

“All’inizio di un luglio straordinariamente caldo, verso sera, un giovane scese per strada dallo stanzino che aveva preso in affitto in vicolo S., e lentamente, come indeciso, si diresse verso il ponte K. Sulle scale riuscì a evitare l’incontro con la padrona di casa. Il suo stanzino era situato proprio sotto il tetto di un’alta casa a cinque piani, e ricordava più un armadio che un alloggio vero e proprio.”.

Ad angolo con questo vicolo, campeggia una statua dello scrittore e una iscrizione che recita:“Sul tragico destino di quanti vissero in questa parte di San Pietroburgo Dostoevskij ha poggiato le fondamenta della sua appassionata supplica per il bene di tutta l’umanità”.

Dai bassifondi di piazza Sennaya sono poi andata nell’ultima casa in cui visse lo scrittore, rimasta immutata da allora e visitabile per soli 160 rubli. Entrare nella casa in cui lui trascorse gli ultimi giorni della sua vita mi ha dato un fremito che rinuncio a trasferire a chi non lo prova già nel leggere queste parole.

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Il suo studio privato in cui scrisse I fratelli Karamazov

Qui scrisse lo splendido I fratelli karamazov (per il quale nutro un certo debole), aiutato dalla sua seconda moglie e stenografa Anna Griegorievna Snitkina.
Dostoevskij scriveva dalle 23.00 alle 5.00 del mattino, bevendo grandi quantità di tè nero per rimanere sveglio e fumando continuamente durante la stesura dei suoi lavori: nonostante la diagnosi di enfisema, non smise mai di fumare.

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La tabacchiera con le sigarette già pronte

Su un basso tavolino nell’anticamera del suo studio c’è ancora la tabacchiera che usava e una frase scritta a penna da sua figlia il giorno in cui lo scrittore morì: “oggi papà è morto”. Semplice e doloroso.

Dormiva fino a mezzogiorno, poi mangiava qualcosa e nel pomeriggio riceveva chiunque gli facesse richiesta di visita: non rifiutava mai nessuno. La sera la dedicava alla famiglia, alla quale teneva moltissimo cenando con i suoi familiari.
Poi, usciva nei bassifondi, a stretto contatto con la gente più miserevole.
Una stanza è adibita a museo: tutti i suoi oggetti, le foto dei suoi intimi amici (gli unici che ammetteva nel suo studio privato perché, diceva, gli dava fastidio se estranei toccavano le sue carte), le lettere, le cose a lui più care.

Da quel luogo silenzioso e profondo alla spavalda zona di Petrograd, altra tappa del “pellegrinaggio”, il passaggio non è semplice, ma doveroso.

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Superato un fossato accessibile solo percorrendo a piedi un ponte di legno, arriviamo sull’isola Zayachy. Qui è ormeggiato il celeberrimo incrociatore Aurora e qui sorge il primo nucleo di San Pietroburgo, il luogo in cui fu posta la prima pietra (compresa la capanna dove viveva il despota, poco più di un paio di spartane stanze di legno).La cattedrale accoglie le spoglie di tutti gli zar, da Pietro il Grande a Nicola II Romanov, assieme ai suoi figli e a sua moglie, deposti successivamente pare tra accese polemiche dei pietroburghesi legati al Bolscevismo e al mito di Lenin.
Tutt’attorno a questi complessi che accoglievano guardie e generali, si erge la Fortezza di Pietro e Paolo, imponente e antica, il cui  budello di stanze fredde e inospitali costituisce le prigioni.

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Qui fu imprigionato, torturato e ucciso (ingiustamente) davanti a suo padre, Aleksei, figlio di Pietro I, accusato di tradimento.

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La cella di Bakunin

Qui furono imprigianti Lev Trotsky (nella cella numero 60), Gorky, Bakunin e il fratello maggiore di Lenin, Aleksandr, oltre che Dostoevskij.

Nelle piccolissime stanze sferzate dal vento gelido del Circolo Polare Artico, con una sola feritoia in alto da cui entrava un filo di luce, senza nessun conforto e in assoluta solitudine, i detenuti impazzivano, si cospargevano di carosene e si davano fuoco. Cercavano di comunicare con un alfabeto inventato da loro, simil morse, battendo con le catene sul telaio dei letti di ferro per sconfiggere quell’isolamento doloroso condividendo il loro nome, le loro paure, gli incubi. Per farsi coraggio.
A quel tempo, Fëdor frequentava un gruppo di giovani liberi pensatori, il Circolo Petrasevskij. Nicola I li catturò, li imprigionò e li condannò a morte.
Dopo molti mesi trascorsi in quelle terribili prigioni, lo scrittore fu condotto al patibolo ma poco prima che i fucili puntati sparassero, giunse notizia di annullamento.

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La cella di Dostoevskij

In realtà si trattava di una messa in scena che servisse di lezione: Dostoevskij fu inviato ai lavori forzati in Siberia.
L’esperienza turbò profondamente lo scrittore che, appena poté fare ritorno alla sua amata città, graziato da Alessandro II, scrisse Memorie da una casa di morti, una sorta di diario di quei mesi di reclusione.

Infine, è con una nostalgica tristezza che percorriamo l’ultima tappa: imboccando Nevsky prospect fino al
suo tratto finale, dove si staglia l’imponente Monastero Aleksandr Nevsky, siamo arrivati nel luogo in cui riposa lo scrittore.
Il cimitero Tichvin trasmette un forte senso di pace.

Tra le lapidi e le statue, abbiamo scovato la tomba di Cajkovskij, un altro mentore che ha segnato la mia vita e al quale ho reso il mio sincero e commosso omaggio.

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Tomba di Caijkovskij

Con gran sorpresa, anche quella di Ivan Krylov, scrittore e favolista russo. Primo, usò per le sue favole la lingua popolare e le forme idiomatiche tipiche dei contadini e della povera gente, dando loro la dignità letteraria che avrebbe fatto scuola negli autori successivi.

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La lapide di Krylov

Ma è su quella di Dostoevskij che mi sono soffermata più di ogni altra, e alla quale sono ritornata più volte dopo ogni giro, come se, sapendo che era lì, avessi potuto parlargli o semplicemente ascoltarlo.
Ho reso un saluto silenzioso alle spoglie del maestro il cui spirito ha segnato la mia vita a così tanta distanza, in ogni senso.

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La lapide di Dostoevskij

La donna che non parla inglese arriva con un sorriso e due fumanti piatti di carne d’agnello e maiale. Tutto intorno è un brulicare di gente di ogni tipo, dai tratti somatici slavi e orientali, in un miscuglio di incredibile bellezza.

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Mi sistemo meglio sulla sedia arrugginita di piazza Sennaya e volgo lo sguardo tutt’intorno agli accattoni, agli ubriaconi e ai borseggiatori, alle contadine che vendono secchielli di mirtilli con il fazzoletto in testa, gli scarponi e le maglie di lana sdrucita.

Chiudo il quaderno e saluto lo spettro dello scrittore ringraziandolo per ogni cosa.

Bevo un sorso di birra e addento la bollente carne alla brace proprio come faceva Dostoevskij, un secolo fa, nello stesso posto, tra la stessa gente.
Spasiba, Fëdor. Con tutto il cuore