Articoli

Procrastinazione

La procrastinazione e il vuoto interiore. Una teoria.

“Non rimandare a domani
quello che può essere fatto dopodomani
altrettanto bene”.
Mark Twain

 

Per chiarire come sono giunta alle riflessioni di cui scrivo in questo articolo, ho bisogno di fare una breve premessa.
Ci sono stati periodi della mia vita in cui mi sono trovata a rimettere insieme pezzi di me che qualche evento aveva frantumato.
Durante uno di questi periodi, uno particolarmente difficile, feci una promessa alla me stessa che se ne stava in ginocchio, confusa e in lacrime, davanti alle macerie delle proprie illusioni.
Questa promessa era: “ogni giorno, un gradino”.
Quello che intendevo era: ogni giorno un movimento non meramente in avanti, occupando in orizzontale lo spazio della mia vita lungo l’apparente linea del tempo, ma in alto, verticale, verso un miglioramento continuo e un recupero della mia integrità.
Devo ammettere che ci sono stati periodi difficili, in cui fare quel passo mi è costata molta fatica ma sebbene sia stato un percorso non sempre agevole – per usare un eufemismo – ho tenuto duro.
Un giorno ho acquistato quel libro di Qì Gōng – comprato solamente, senza leggerlo – un altro giorno ne ho letto quella pagina – a volte avevo il tempo per un solo rigo -, oppure ho fatto dieci minuti di meditazione – a volte erano solo cinque -, ho inviato quel messaggio alla persona a cui voglio bene per chiederle come stesse – anche quando a stare male ero io -, sono scesa dall’autobus tre fermate prima per soddisfare le esigenze di movimento del mio corpo – anche se ero stanca, e pioveva.
Sembra poco, e a volte lo è stato, ma questi piccoli passi, nel tempo, mi hanno aiutata più di quello che potrebbe sembrare.
Fine della premessa.

Stamattina stavo posticipando il momento di iniziare a lavorare quando mi è apparso nella bacheca di Facebook un post di un sito che seguo da molti anni, da quando era soltanto un piccolo blog, e che nel tempo si è meritatamente ingrandito.
Il sito è quello di EfficaceMente di Andrea Giuliodori e contiene una serie di articoli molto ben fatti sulla crescita personale.
Il post in questione proponeva una selezione di TED Talks[1], un format che apprezzo molto e che presenta conferenze di valore condensate in una manciata di minuti.
La verità, devo ammetterlo, è che stavo procrastinando quello che avrei dovuto fare, così per essere coerente e rimanere in tema ho cliccato sul primo link, dedicato proprio alla procrastinazione.
La conferenza che ho ascoltato mentre bevevo il mio caffè era di un tale blogger americano, Tim Urban, che non conoscevo.
Il suo blog si intitola Wait But Why e spiega in maniera divertente – e non scientifica – cosa “succede” nel cervello di un procrastinatore.
In breve: la componente razionale è quella parte di noi che prende le decisioni e regge il timone delle nostre scelte. Nel cervello del procrastinatore, dice Urban, c’è un’altra componente, che chiama simpaticamente “la scimmietta della gratificazione immediata”.
È lei che fa deviare la rotta alla parte razionale che è dentro di noi finché non arriva una scadenza e, con essa, quello che lui chiama il “mostro del panico” il quale dandoci una bella svegliata ci costringe a fare ciò che abbiamo rimandato fino all’ultimo.
Questo mostro, però, è assente da tutte quelle attività che non hanno una scadenza, come le attività creative o andare a visitare persone care, fare sport e prendersi cura della propria salute.
Questo tipo di procrastinazione è la causa di scontentezza a lungo termine e di rimpianti perché, continua Urban, la procrastinazione a lungo termine fa sentire come spettatori della propria vita.
Urban non offre soluzioni, ma ritiene che tutti siamo procrastinatori ed espone una riflessione sulla brevità della vita e sull’importanza di darsi da fare e iniziare subito ciò che si sta rimandando.

Alla fine del video sono rimasta qualche minuto a riflettere e questo lavorìo mentale è rimasto costante anche mentre facevo la doccia.
C’era una vocina interiore che mi stava dicendo qualcosa, con una certa insistenza.
L’ho ignorata per un po’ finché non mi sono fermata, testa insaponata e tutto, ad ascoltarla.
E ho capito.
Quello che mi stava suggerendo era che la radice della procrastinazione, di ogni tipo di procrastinazione, è il vuoto.
Per vuoto intendo quella sensazione sgradevole e a volte dolorosa che ci danno tutte quelle emozioni negative che scavano dentro di noi – paura, rabbia, tristezza, odio, solitudine – sottraendoci quelle positive e impedendoci, appunto, una vita di “pienezza”.

Andrea Giuliodori, in altri articoli del sito, dice giustamente che i procrastinatori non se ne stanno quasi mai con le mani in mano. Fanno un sacco di cose, ma nessuna di queste è un’azione che li fa avvicinare ai proprio obiettivi.
Fare le pulizie, andare sui social, aprire il frigo in continuazione, fumare, bere…

È un po’ come accade a volte con i sensi di colpa.
Prima sentiamo – a un livello molto sottile e a volte inconsapevole – un vuoto dentro di noi che può avere le cause più disparate, da traumi dell’infanzia a credenze limitanti acquisite nel tempo.
A quel punto il nostro istinto, la nostra parte emozionale – la scimmia del video di Urban, direi – mette in atto una strategia per riempire quel vuoto, renderlo meno doloroso, e cerca una gratificazione immediata: un tweet o una birra, cosa importa?
Quello che “la scimmia” cerca di fare è solo di allontanare la paura, la rabbia, la tristezza: insomma, quel dolore che sente, lenendolo con qualche attività che offra immediato sollievo.
La componente razionale, però, non è soddisfatta: lei conosce la mappa, vede la meta e vuole seguire la direzione giusta.
È lei che regge il timone e che condanna questa reazione della parte emotiva, cioè tutte queste azioni “a vuoto” che non portano a nulla se non a perdere tempo o, peggio, farsi del male, e perciò giudica “la scimmia”.
Così, la nostra parte istintuale ed emotiva, oltre a provare quella sensazione di vuoto, si sente ferita e incompresa. La sua paura/tristezza/rabbia non viene riconosciuta, e si sente in colpa.
Noi ci sentiamo in colpa.
E cos’è il senso di colpa, se non ulteriore vuoto?
E così si innesca un circolo vizioso difficile da spezzare.
La procrastinazione, cioè l’azione di sostituire qualcosa che è necessario fare e che darà frutto tra molto tempo con qualcosa che dà una soddisfazione o un risultato adesso, è un modo per riempire un vuoto che abbiamo dentro.

Quello che io ho imparato è che non si possono selezionare le emozioni. Per essere felici, è necessario accettare la tristezza; e la paura è il lasciapassare per la libertà interiore.
È come aprire una porta: finché stiamo lì davanti, abbiamo paura di quello che c’è dietro, dell’ignoto. Una volta aperta e attraversata, è già alle nostre spalle, e ci conduce da qualche altra parte, verso quell’obiettivo che desideriamo tanto raggiungere.
La porta scompare e noi siamo passati a un altro livello.

C’è un video di un comico americano che si chiama Louis C. K., in cui spiega questa cosa molto bene. Lui mi piace moltissimo e ho visto quasi tutto quello che ha fatto. In questo video molti ridono, e in effetti lui è forte ma quello che dice, benché sia divertente, secondo me non è affatto ridicolo. 
A mio avviso funziona proprio come dice lui: se evitiamo quella tristezza cercando una gratificazione immediata e illusoria inviando sms a cento amici, quello che accadrà è che ce la porteremo sempre dietro e scaverà un vuoto dentro di noi.
Se l’accogliamo, invece, essa si esprimerà, per poi scomparire e lasciare il posto alla pienezza di sé e alla gioia.
Alla nostra qualità più alta di essere umani.
Riempiendo quel vuoto con l’amore per sé stessi forse non ci sarà più bisogno di colmarlo con soddisfazioni provvisorie, come i like di Facebook e la fetta di torta in frigo.
E per quanto mi riguarda non c’è nemmeno bisogno di razionalizzare cosa proviamo e perché lo proviamo: basta accoglierlo così com’è accettando la propria vulnerabilità [2] e amandosi, nonostante tutto, esattamente così come si è.
Se quello che penso ha un senso potrebbe essere che se riuscissimo ad abbracciare ogni emozione che proviamo, ad accettarla senza giudicarla, la scimmia si sentirebbe compresa e integrata e prenderebbe a sonnecchiare accanto a noi senza distoglierci. La nostra parte razionale sarebbe libera di guidarci dove desideriamo andare, fino alla soddisfazione di un benessere più stabile e duraturo.
In definitiva se, come credo, alla base della procrastinazione c’è sempre una mancanza, si tratta soprattutto di mancanza di amore di sé e di accettazione delle proprie paure, della rabbia e della tristezza che abbiamo dentro. Dei nostri limiti come esseri umani.

Alla fine, mentre mi stavo rivestendo, pensavo che forse uno dei metodi più efficaci per combattere la procrastinazione è dunque amare sé stessi, perdonare e perdonarsi.

E giungiamo così al motivo della premessa iniziale.
Mi sono seduta, ho preso un bel respiro, e mi sono “ascoltata”. Ho sentito cosa aveva da dire “la scimmia”, accogliendo qualsiasi emozione avesse voluto darmi.
Poi con un sorriso mi sono alzata per andare a fare con gioia quello che dovevo fare, salendo il mio gradino di oggi.

 


[1] TED (Technology Entertainment Design) è un marchio di conferenze statunitensi.  La sua missione è riassunta nella formula “ideas worth spreading” (idee che meritano di essere diffuse). Le lezioni abbracciano una vasta gamma di argomenti che comprendono scienza, arte, politica, temi globali, architettura, musica e altro. I relatori stessi provengono da molte comunità e discipline diverse. Fonte: Wikipedia.

[2] Qui il link a un altro video di Ted talks suggerito dal EfficaceMente sul potere della vulnerabilità di Brene Brown.

 

La scrittura è un muro a secco: parola di Neil Gaiman

[Suggerimento musicale per la lettura: Led Zeppelin: Stairway to Heaven]

“Uno scrittore professionista
è un dilettante
che non ha mai mollato”
Richard Bach


Siamo a Novembre, tempo di NaNoWriMo.
Come l’anno scorso, anche quest’anno mi sono buttata nella kermesse internazionale.

Rispetto all’anno scorso, però, il mio Guardiano della Soglia è meno agguerrito. Abbiamo imparato a conoscerci meglio, noi due.
Di tanto in tanto ci prova ancora a dissuadermi mordendomi, ma non ci faccio più tanto caso. Lo so che mi vuole bene: è come un cucciolo di drago che involontariamente mi graffia giocando.
Non è cattivo. È la sua natura.
Scrivere, è la mia.

In questo articolo, però, non voglio parlare del NaNo. 
Desidero parlare di scrittura, ed esattamente di un momento particolare della scrittura che in un altro articolo, mutuando un termine dal processo alchemico, ho chiamato “Opera al Nero“.
Avviene nel bel mezzo della prima stesura, quando oscillo tra portare a termine il romanzo e la voglia di gettare tutto ed emigrare in un altro Stato.

Qui di seguito riporto un consiglio, utilissimo quando mi trovo su quella sottile linea di confine, dato da uno degli autori che ne fornisce di migliori. 
Si tratta di Neil Gaiman.
Il pezzo originale l’ho trovato qui, sul sito del contest NaNoWriMo, e l’ho tradotto.
Anche lui è un Membro della Gilda delle Mani Inchiostrate, un veterano. Perciò vale la pena dargli ascolto.

Spero che non ci siano errori troppo vistosi nella traduzione di una lettera che, a mio avviso, coglie completamente non una, ma la difficoltà dello scrittore.
Io la trovo molto vera, ed è ciò che accade anche a me.
Leggerla mi conforta.
Mi auguro che funzioni così anche per te.


“Caro Autore NaNoWriMo,

ormai sei probabilmente pronto a rinunciare. È passato quel primo, splendido rapimento furioso quando ogni personaggio e idea sono nuovi e divertenti. Non sei ancora in quella epocale parabola discendente, quando parole e immagini capitombolano fuori dalla testa a volte più velocemente di quante puoi trattenerne sulla carta.

Sei nel mezzo, un po’ oltre il punto a metà strada. Il fascino è svanito, la magia è andata, la tua schiena fa male per il troppo digitare, la tua famiglia, amici ed e-mail casuali di conoscenti sono passate dall’essere di incoraggiamento o almeno di accettazione al lamentarsi che non ti vedono più – e che anche quando lo fanno – che sei preoccupato e per niente divertente.

Non sai perché hai iniziato il tuo romanzo, non ricordi più perché hai immaginato che qualcuno vorrebbe leggerlo, e sei abbastanza sicuro che anche se lo finisci non sarà valsa la pena, il tempo o l’energia, e ogni volta che ti fermi abbastanza a lungo da confrontarlo con la cosa che avevi in testa quando hai cominciato – uno scintillante, brillante, meraviglioso romanzo, in cui ogni parola sputa fuoco e brucia, un libro così buono o migliore del miglior libro che tu abbia mai letto – è così dolorosamente inadeguato che sei abbastanza sicuro che sarebbe un atto di misericordia semplicemente cancellare l’intera faccenda.

Benvenuto nel club.

È così che i romanzi vengono scritti.

Tu scrivi. Quella è la parte dura che nessuno vede. Scrivi nei giorni buoni e scrivi nei giorni schifosi. Come uno squalo, devi continuare a muoverti in avanti o muori. La scrittura può essere o no la tua salvezza; potrebbe o essere o no il tuo destino. Ma questo non importa. Ciò che conta in questo momento sono le parole, una dopo l’altra. Cercare la parola successiva. Scriverla. Ripetere. Ripetere. Ripetere.

Un muro di pietre a secco è una bella cosa quando vedi che delimita un campo nel bel mezzo del nulla, ma diventa ancora più impressionante quando ti rendi conto che è stato costruito senza malta, che il costruttore necessitava di scegliere ogni pietra ad incastro e inserirla. Scrivere è come costruire un muro. È una continua ricerca della parola che si adatta al testo, alla tua mente, alla pagina. Trama e carattere e metafora e stile, tutto questo diventa secondario alle parole. Il costruttore di parete erige la sua parete una pietra alla volta finché raggiunge il fondo del campo.

Se non lo costruisce non ci sarà. Così lui guarda in basso il suo mucchio di rocce, prende quella che meglio si adatta al suo scopo, e la inserisce.

La ricerca della parola non si ottiene facilmente, ma nessun altro scriverà il tuo romanzo per te.

L’ultimo romanzo che ho scritto (era i ragazzi di ANANSI, nel caso te lo stia chiedendo) quando ero a tre quarti del percorso, chiamai il mio agente. Le dissi quanto mi sentissi stupido a scrivere qualcosa che nessuno avrebbe voluto leggere mai, quanto inconsistenti fossero i personaggi, quanto inutile la trama.

Ho fortemente suggerito che ero pronto ad abbandonare questo libro e scrivere piuttosto qualcosa di diverso, o forse avrei potuto abbandonare il libro e intraprendere una nuova vita come giardiniere di giardini all’inglese, rapinatore di banche, cuoco o biologo marino. E invece di simpatizzare o concordare con me, o spingermi in avanti con un’ondata di entusiasmo — o anche litigare con me — disse semplicemente, sospettosamente allegra, “Oh, sei a quella parte del libro, vero?”

Ne fui scioccato. “Vuoi dire che l’ho già fatto prima?”

“Non ti ricordi?”

“Non proprio.”

“Oh sì,” ha detto. “Lo fai ogni volta che scrivi un romanzo. Ma fanno così anche tutti gli altri miei clienti”.

Non ero nemmeno unico nella mia disperazione.

Così misi giù il telefono e mi portai fino alla caffetteria in cui stavo scrivendo il libro, riempii la mia penna e continuai a scrivere.

Una parola dopo l’altra.

Questo è l’unico modo in cui i romanzi vengono scritti e, a meno di elfi che arrivano durante la notte e trasformano le tue note confuse in Capitolo Nove, è l’unico modo per farlo.

Quindi continua a perseverare. Scrivi un’altra parola e quindi un’altra.

Molto presto sarai nella parabola discendente, e non è escluso che presto sarai alla fine.

Buona Fortuna…

Neil Gaiman”


Buona scrittura a tutti, una parola dopo l’altra.

 

 

La prima stesura di un romanzo e L’ Opera al nero alchemica

[Suggerimento musicale per la lettura: The crow_soundtrack]

 
Questi primi, gelidi giorni di Dicembre mi si stanno snocciolando sul calendario uno dietro l’altro sotto l’egida del Corvo.
A dire il vero, è da ottobre che il Corvo mi si è appollaiato su una spalla, e mi gracchia nell’orecchio con quel suo verso così dolce.
Il punto è che, con mio grande disappunto, che temo dovrò sorbirmi il suo gracchiare per altri mesi. Forse per tutto l’inverno.

CORVO IMPERIALE - Raven - Corvus corax - Luogo: Cogne (AO) - Autore: Alvaro

CORVO IMPERIALE – Raven – Corvus corax – Luogo: Cogne (AO) – Autore: Alvaro

Ogni tanto mi piace trovare parallelismi tra quello che faccio e l’alchimia. Un’abitudine indegnamente mutuata da Jung (anch’egli sovente co-protagonista dei miei post) e dalla lettura entusiasta del suo Psicologia e alchimia[1].
In questo saggio lo psichiatra svizzero prova a spiegare come le fasi attraverso le quali avviene l’opus alchemicum corrispondano a quelle del “processo di individuazione”, cioè quel processo nel quale si prende consapevolezza della propria individualità e si scopre la propria vera essenza interiore.
Jung approfondì successivamente questa interessantissima tesi in Psicologia del transfert(1946), Saggi sull’alchimia (1948) e nel Mysterium Coniunctionis (1956).

Quando la sciatica mi costringe a letto, soprattutto con la canicola estiva, mi consolo con letture leggere

Quando la sciatica mi costringe a letto, soprattutto con la canicola estiva, mi consolo con letture leggere

Dicevo: ogni tanto mi capita di riconoscere concetti che collegano la scrittura a quella paccottiglia di conoscenze mistico-esoteriche che mi ritrovo, mio malgrado, in testa per aver divorato parecchi libercoli su tali argomenti. Spesso, di pessima qualità e dubbio contenuto, devo riconoscerlo, ma talvolta forieri di pietre focaie utili a far brillare qualche piccola, debole e fugace scintilla di intuizione.

Abitualmente, non dedico spazio scritto a queste mie congetture, che rimangono nel mondo iperuranico delle (mie) idee, ma di tanto in tanto ho fatto qualche strappo alla regola, come ad esempio in questo articolo sulle quattro parole del mago e la creazione artistica.
Così, dimostrando grande coerenza, strappo di nuovo la regola che mi sono data io stessa, e scrivo (poche righe, lo prometto), sui tre stadi in cui la “materia prima” (l’idea di una trama) mescolata a un cucc.no di zolfo, ½ l. di mercurio e un pizzico di sale, e riscaldata a fuoco vivace nella padella dell’atanor, si trasforma nella pagnotta filosofale.
E qualcuno si starà chiedendo, cosa diamine c’entra questo con la scrittura?
C’entra, c’entra.
Questi stadi (i principali sono tre) prendono il nome dal colore che la materia assume man mano che trasmuta.

All’inizio, quando la materia si dissolve, putrefacendosi, abbiamo La Nigredo (Opera al nero, rappresentata da un Corvo). Poi, la stessa passa alla fase successiva, in cui si purifica sublimandosi, chiamata Albedo (Opera al bianco, rappresentata da un Cigno), fino a quando non si ricompone e si fissa in una nuova struttura, migliore, che è la Rubedo (Opera al rosso, rappresentata da una Fenice).

Ora, io sfido qualsiasi scrittore a non raccontare la propria esperienza di scrittura e stesura di un romanzo che non passi da tutte e tre queste fasi.

Prima stesura.
Arriva un’idea, o un personaggio. Le/gli si appicciano sopra un paio di ostacoli, e si prova a immaginare come si può sviluppare/reagisce. Si abbozza una trama. Si iniziano a vomitare parole a caso, una dietro l’altra. E man mano che si procede, il personaggio prende vita, acquisisce spessore, vive di vita propria e sceglie cose che tu scrittore non hai previsto. Così, la struttura iniziale, si modifica. Spesso, dopo uno o due mesi di scrittura, i personaggi sembrano un po’ appassire. La trama non ci sembra più tanto coerente e, di pari passo, la nostra determinazione inizia a cedere. Sì, insomma, come scriveva Anton Čechov “Qualsiasi idiota può superare una crisi. È il quotidiano che ci logora”.

Continuare a scrivere nonostante le idee che si dissolvono e la nostra determinazione inizi a odorare di stantio, non è facile, e richiede una certa presenza di spirito. Le visioni che abbiamo in testa, che sembravano così brillanti o divertenti o drammatiche, sbiadiscono. Anzi, meglio: si dissolvono, putrefacendosi.

Eccola qui, l’Opera al Nero.

Eccola, la prima stesura di una trama, inizialmente lucidata a dovere e strutturata in un certo modo, che non ha proprio voglia di stare lì ferma e rigida, e si ribella stiracchiandosi e agitandosi.
Lo scrittore inesperto non lo aveva previsto e la sua volontà inizia a cedere sotto i colpi impietosi, ma ahimé inesorabili, della Nigredo.
Come dice Neil Gaiman: “Tutti sono capaci di iniziare un romanzo. Se sei uno scrittore, puoi anche finirlo”. È proprio a questo punto che, i più, abbandonano.

La nostra prima stesura muove i suoi traballanti passi sotto le ali del Corvo, tra i miasmi putrescenti della Nigredo.
Arrivare fino alla fine richiede qualità interiori sulle quali il buon Jung ha sprecato parecchi etti di carta.

Durante la revisione (seconda fase), il testo si sfoltisce. Si tagliano le parti noiose (si spera), si snelliscono i personaggi e si alleggeriscono le scene. Anche la sintassi perde le zavorre dei pensieri confusi della prima fase oscura. Si decide di riscrivere qualche parte (a volte interi capitoli) e di tagliare/aggiungere personaggi, dialoghi, o cambiare la voce narrante.

È l’Albedo. La revisione ha (o meglio, dovrebbe avere) il candore del Cigno.

E infine, ciò che si è deciso durante la purificazione della “materia prima” (la nostra storia, le nostre idee), viene fissato di nuovo, nella seconda stesura (ma facciamo anche nella terza, quarta, eccetera eccetera).
La trama si fissa, e ogni cosa trova il suo posto. L’idea iniziale non sembra così orrenda, con questo nuovo vestitino e il fiocco tra i capelli. Anzi: pare anche graziosa.

La seconda stesura è la Rubedo. La Fenice risorge dalle sue ceneri.

Sarà bello quel momento, ma non è oggi.
Oggi, ho il pennuto nero che mi artiglia la spalla e gracchia il suo verso stridulo dentro l’orecchio e dritto fino al cranio.
È in momenti come questi che fatico a non rinnegare la mia scelta etica vegetariana, resistendo per non mettergli le mani al collo e strozzarlo.
Non posso. È una fase obbligata e necessaria.
Devo soltanto resistere.
Giungerà il candido Cigno scivolando sulla pelle dell’acqua. Giungerà, con tutti i suoi problemi, le ansie da revisione e le insicurezze che si trascina dietro.
Oh, giungerà. Ma non è questo il giorno.
E dopo di lui, sorgerà la Fenice, con la sua disperata resistenza e il suo fulgore dorato striato di rosso.
Sorgerà, ma non è questo il giorno.
Uno dopo l’altro verranno a dare il cambio al Corvo.
E poi?
E poi niente, si ricomincia.

La Grande Opera non è nel risultato, ma soltanto nell’opus. Appunto.

Lui disapprova la procrastinazione (immagine presa dal web)

Lui disapprova la procrastinazione (immagine presa dal web)

E adesso scusate, ma devo proprio lasciarvi. Devo dar da mangiare al pennuto: un migliaio di parole almeno, o non la smetterà più di gracchiare.

 


[1] Jung Carl G, Psicologia e alchimia, Bollati Boringhieri (2006, XIV-552 p., ill., brossura)