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Del perché non sono degna di essere una social-qualcosa o “Come un pirata mi salvò da un naufragio”

L’uomo è l’unico animale
per il quale 
la sua stessa esistenza 
è un problema che deve risolvere.

Erich Fromm – Dalla parte dell’uomo, 1947

 

Tutto è nato da una citazione tratta da un libro a me caro con annessa foto dello scrittore. 
Una citazione che ho condiviso sulla mia Pagina Facebook affinché chi mi segue, se mi segue, aprendo l’applicazione dal cellulare la mattina se la ritrovi lì come riflessione, passatempo o semplice ‘buongiorno’.
Dicevo: tutto è nato da questa citazione che mi sembrava interessante condividere.
Dopo averla postata, mentre riprendevo la mia lettura, la vibrazione del cellulare mi ha notificato l’arrivo di una raffica di messaggi su Messenger.
Era una mia cara amica che mi dimostrava tutto il suo affetto scrivendomi:
– ma che sei scema a postare cose a caso sulla tua Pagina? Pazza!

Sorpresa dalla veemenza, rispondo:
– ma come sarebbe cose a caso? È Anton Čechov![1]
– Sì, può essere anche Sbirulino [!] ma l’ho notato, sai, che posti senza regolarità, quando te lo ricordi e con contenuti incoerenti l’uno con l’altro! Su Instagram, poi, metti foto che non hanno la stessa palette di colori. Insomma: stai facendo le cose a caso (per onestà intellettuale dirò che aveva scritto “a cazzo”, ma credo che due parolacce nello stesso articolo siano troppe, vedi più in basso). Non diventerai mai una professionista.
– E come dovrei postare, scusa? – chiedo, scendendo dal cocuzzolo della montagna del sapone per sentirla meglio.
– Ah, leggiti qualche manuale, e poi capirai.
E con questo suo vaticinio profetico aleggiante nell’aria ho posato i “Quaderni” di Čechov che stavo leggendo e mi sono messa a cercare questi fantomatici manuali che mi avrebbe insegnato come si sta al mondo virtuale.

Devo ammettere di averci provato. Con tutto il cuore. 

Io ci ho provato davvero a leggere quei libricini che spiegavano per filo e per segno come fare a “esistere in rete”, ma di ognuno sono arrivata a metà, senza mai terminarli.
Se a qualcuno interessa perciò sapere come funzionano attualmente (in data odierna) gli algoritmi di Instagram, sappiate che dovreste postare almeno tre foto al giorno, tutti i giorni, assicurandovi però di pubblicarle nei momenti in cui c’è maggiore presenza del target ideale (delineato selezionando accuratamente i propri ‘amici’). Inoltre è indispensabile che la griglia delle foto sia uniforme. Se fate un corso di fotografia è meglio. 
Che poi questo non c’entri nulla con ciò che fate, poco importa: le immagini la fanno da padrone nel mondo odierno, cazzo! (usare le parolacce negli articoli e nelle ‘didascalie’ è bene, fa molto ‘moderno’, confidenziale, colloquiale. Da Sociologa direi che livella verso il basso la conversazione in modo che una quantità maggiore di lettori possa trovarcisi bene, a proprio agio, sentendosi partecipe).
Sulla Pagina Facebook invece, è fon-da-men-ta-le postare almeno un articolo al giorno. O un post. Una foto. Una frase.
Ma non deve essere la stessa di Instagram: giammai! Sarebbe una eresia.
E non dimenticate che nei commenti ci deve sempre sempre sempre essere una domanda: e che, non lo vogliamo coinvolgere il “pubblico”?
Poi l’articolo deve essere di interesse generale. O, se non può esserlo, almeno interessare chi è interessato a interessarsi a te, insomma. Che sia utile, ma anche divertente, con un linguaggio giovanile, moderno: la forma colloquiale è quella che va per la maggiore.
Come ho scritto sopra, se ci mettete una parolaccia e un paio di punti esclamativi l’articolo si impenna, ma non esagerate! o finirete per dare una brutta impressione.
Chiunque faccia meno di questo, non esiste in rete. E se non esiste in rete, non esiste tout-court.

Io giuro che ci ho provato a seguire le regole, per un poco. Qualche mese, lo ammetto: dal mio compleanno del 24 febbraio in poi ho provato a postare regolarmente, con tutti i sacri crismi. 
Sembrava andare tutto bene finché mi sono accorta che per farlo, non stavo scrivendo più.
Il mio nuovo romanzo era rimasto a metà e giaceva lì da mesi. Ai racconti nella cartella delle bozze mancava l’editing, il piccolo saggio che avevo in mente di scrivere era stato soltanto indicizzato.
In compenso, credo di aver fatto delle belle foto su Instagram, eh, non dico di no (è abbastanza colloquiale quello “eh”?).
Così, appena nella mia vita è arrivata una tempesta (metaforica), sono stata soverchiata da una piena crisi creativa e ho smesso di fare tutto contemporaneamente. 
Niente Twitter (e va bene che già lo curavo poco), niente Instagram (se volevo fare la fotografa cambiavo mestiere), niente post giornalieri sulla Pagina Facebook (ma davvero ho qualcosa di speciale e intelligente e divertente da dire tutti i giorni a chiunque sia lì fuori?)

Il fatto è che a volte mi sento triste, o alienata, o prosciugata e non ho voglia  né tempo di fare finta di essere qualcos’altro.  

Sì, be’, certo un po’ strana lo sono. Ok, sono molto strana, al punto che quando lavoravo a tempo indeterminato presso una multinazionale i miei colleghi mi chiamavano “la strana”, però sono una strana innocua insomma.
Più o meno.
Comunque, ciò che intendevo, è che per me non ha senso postare sui social a ritmi massacranti per stare al passo dei milioni di input che arrivano ai nostri occhi tutti i santi giorni. Non so nemmeno quanta gente leggerà questo articolo e francamente non ho interesse a installare un plugin sul sito che me lo notifichi.
Non mi sento di fingere di essere sempre felice, o propositiva, o carica energeticamente. E non mi va nemmeno di scrivere cose depressive quando non mi sento in vena (ogni tanto va bene condividere un sentimento oscuro ma i social non sono il muro del pianto).
Credo che i social siano uno strumento, e perciò non dovrebbero diventare una ossessione. 
O diventerebbero, banalmente, il fine. 
Per stare al passo con tutto, ed esistere in rete, bisognerebbe imparare a conoscere e aggirare e manipolare gli algoritmi di Instagram e Facebook. Sembra facile, ma il fatto è che sono in continua evoluzione, perciò quando arrivano qui in Italia, oltreoceano sono già desueti: non si fa in tempo a imparare una nuova modalità che è già superata e bisogna rimettersi a studiare di nuovo, in un circolo senza fine.[2]

Volete sapere come è andata a finire quando ho smesso di fare tutto? è andata a finire che sono entrata in crisi, perché non ero “abbastanza” social per soddisfare le aspettative dei cosiddetti “professionisti” (non ho nemmeno un video su Youtube! sono proprio troglodita. Non escludo di farne uno prima o poi. Ci pensate? un canale youtube con un paio di video pubblicati a distanza di mesi o anni. Un cult proprio).
E in questo vortice di dubbi e tentennamenti, i miei lavori accumulavano polvere sulla scrivania.
Finché una notte in cui non riuscivo a dormire (mi capita spesso) mi sono alzata, ho fatto una doccia e mi sono servita un drink (leggi: ho bevuto un bicchiere di vino paesano, però “servirsi un drink” fa più scrittrice maledetta, e questo sui social pare tiri un sacco! anche la frase “tira un sacco” tira un sacco).

Non avevo sonno, non avevo distrazioni, intorno a me c’era silenzio. Dentro di me c’erano tristezza, confusione, paura.

Così ho acceso il computer, ho messo su le cuffie (scrivo sempre con la musica ad alto volume e le tapparelle abbassate ma dato che era notte questo secondo dettaglio non è influente) e ho iniziato a scrivere. 
A scrivere, a scrivere, a scrivere e ancora e ancora.
Così, ho buttato giù una storia di pirati, di un naufragio e delle peripezie di questi pendagli da forca per salvare la pelle e non diventare bocconi per i pescecani.
Mi sono gettata sul letto la mattina dopo verso le otto e ho dormito fino a mezzogiorno. Il pomeriggio, solita routine di vita finchè la sera, drink alla mano, ho ripreso la storia dove l’avevo lasciata.
Una storia di pirati e di un naufragio mentre io mi sentivo sballottolata qua e là dai marosi del web.
Forte, no? Tutt’uno con la mia arte.
Poi ho terminato un racconto: questo è più poetico, parla di un pesce rosso (ritorna il senso di soffocamento, comunque, come fil rouge. E non per via del pesce).
Poi, man mano che le mie priorità tornavano in ordine, ho cominciato a mettere mani al saggio: poco alla volta sta prendendo forma. Una cosa leggera, in verità, ma divertente da scrivere. Un saggio con un indice strutturato, come parafrasi dell’ordine che stava tornando nella mia professione.
Infine, ma mai per ultimo, ho ripreso in mano il romanzo che, abbandonato a sé stesso, mi ha svelato tutti i suoi punti deboli. Essendomi fermata a metà dovrò faticare un bel po’ per riprendere il filo da dove lo avevo lasciato (grave errore da fare durante una prima stesura, che posso depennare dalla lista intitolata “tanto ormai la cazzata l’hai fatta”).
Insomma, sono stata un tutt’uno con la mia arte, che è scrivere, e mi sono sentita subito meglio.
Cosa è successo in  questi mesi in cui non ho postato nulla sui social né in questo blog è esattamente questo: ho fatto della “buona arte”, come direbbe l’ottimo Neil Gaiman (se non lo avete ancora fatto, correte e vedere il suo discorso qui e leggetevi questo articolo).
Perché quando le cose vanno male e nella vita arriva una tempesta (ce ne sono sempre, per tutti), chi sa fare qualcosa ha un’àncora a cui aggrapparsi (a proposito di navi e di pirati): la propria arte.
Man mano che scrivevo, tiravo fuori le emozioni negative e dolorose e le legavo alla carta con i lacci dell’inchiostro, fuori di me. Da lì potevo guardarle meglio e prenderne le giuste distanze.

Se non mostri e non fai vedere, non esisti, dicono.
Sarà, ma io in quelle notti mi sono riconnessa, senza wireless, a me stessa. 
Nutro un amore incondizionato per le arti: poesia, letteratura, musica, pittura, eccetera eccetera, e ciò che mi tiene a galla non è la mia presenza sui social, né quanto di me sapranno “gli altri”, ma l’emozione che mi dà immergermi nell’arte. 
Scoppio in lacrime leggendo una pagina di un romanzo, ascoltando una canzone, una poesia o guardando un quadro. La mente non distingue tra ciò che è “finzione” e ciò che è “realtà” se questa finzione provoca emozioni, e dunque ricordi.
La morte di Beth in “Piccole Donne crescono” è una cosa che ho vissuto in prima persona. 
A Ginevra, durante una notte insonne (un’altra) ho ascoltato “Alla sera” di Foscolo interpretata da Roberto Herlitzka su questo video di Youtube e ho aperto la fontanella.
La scena “Le nozze rosse” de “Le cronache del ghiaccio e del fuoco” mi ha fatto impazzire: ho avvertito un buco proprio al centro del petto, un misto di dolore, rabbia e compassione.
Al termine della mostra “Van Gogh Experience” a Roma le mie amiche sono dovute venire a raccattarmi perché me ne stavo in un angolino tremante ed emozionata e un po’ fuori di me.
Due mesi fa, al concerto dei Radiohead a Monza non mi sono nemmeno accorta che durante l’esecuzione di ‘Exit Music (for a film)’ stavo piangendo: ero totalmente rapita dalla musica. Cantare a squarciagola “Black” durante il concerto di Eddie Vedder a Firenze mi ha aiutata a spingermi fuori da un periodo buio della mia vita. 
Per me, tutto questo non è accessorio, è fondamentale. Terapeutico.
Io funziono così. Perciò se mi concentro su cosa è meglio fare per “esistere” sul web, smetto di esistere nella vita reale e la cosa non mi conviene.

Perciò a chiunque me lo chieda o me lo faccia notare, in buona o cattiva fede, dirò che no, non sarò regolare nella pubblicazione dei miei post, o delle foto, o dei Tweet (mamma mia, Twitter non lo apro da una vita).
Lo farò quando crederò di avere qualcosa di interessante (secondo me) da dire, da comunicare, da condividere. Con buona pace dell’anima se questo renderà di me un dinosauro del web.
Diciamola così: chiedo comprensione a chiunque mi legga, perché non sono degna di essere una social-qualcosa. Scrivo e basta. Probabilmente non sono degna nemmeno di questo, ma ci provo lo stesso.
Potrei dire che il web è come un romanzo: i punti di svolta degni di nota, le frasi a effetto che ti entrano dentro e ti cambiano il modo di pensare e di sentire, i personaggi mitici, sono pochi.
Il resto, fa solamente volume.[3][4]

 


[1] Per incidens, la frase a caso in questione era “Qualsiasi idiota può superare una crisi; è il quotidiano che ti logora” tratta dai Quaderni.

[2] Per questo credo sia meglio, laddove possibile o necessario, affidarsi a professionisti, che fanno di questa dimensione di presenza on-line un mestiere a tempo pieno. Perché, di fatto, lo è.

[3] Secondo gli esperti questo articolo è troppo lungo. Tuttavia, spero ne apprezzerete lo stile colloquiale, unico frutto immaturo della mia lettura dei manuali sulla gestione dei social.

[4] P.S.: Una mia amica, leggendo il post, lo ha sintetizzato con un “non esisto, ma faccio buona arte”. Non so voi, ma a me questa frase piace un sacco e sento che mi calza a pennello. Molto di più, comunque, di “controllo gli Insigths e sono subito da te”.

 

Procrastinazione

La procrastinazione e il vuoto interiore. Una teoria.

“Non rimandare a domani
quello che può essere fatto dopodomani
altrettanto bene”.
Mark Twain

 

Per chiarire come sono giunta alle riflessioni di cui scrivo in questo articolo, ho bisogno di fare una breve premessa.
Ci sono stati periodi della mia vita in cui mi sono trovata a rimettere insieme pezzi di me che qualche evento aveva frantumato.
Durante uno di questi periodi, uno particolarmente difficile, feci una promessa alla me stessa che se ne stava in ginocchio, confusa e in lacrime, davanti alle macerie delle proprie illusioni.
Questa promessa era: “ogni giorno, un gradino”.
Quello che intendevo era: ogni giorno un movimento non meramente in avanti, occupando in orizzontale lo spazio della mia vita lungo l’apparente linea del tempo, ma in alto, verticale, verso un miglioramento continuo e un recupero della mia integrità.
Devo ammettere che ci sono stati periodi difficili, in cui fare quel passo mi è costata molta fatica ma sebbene sia stato un percorso non sempre agevole – per usare un eufemismo – ho tenuto duro.
Un giorno ho acquistato quel libro di Qì Gōng – comprato solamente, senza leggerlo – un altro giorno ne ho letto quella pagina – a volte avevo il tempo per un solo rigo -, oppure ho fatto dieci minuti di meditazione – a volte erano solo cinque -, ho inviato quel messaggio alla persona a cui voglio bene per chiederle come stesse – anche quando a stare male ero io -, sono scesa dall’autobus tre fermate prima per soddisfare le esigenze di movimento del mio corpo – anche se ero stanca, e pioveva.
Sembra poco, e a volte lo è stato, ma questi piccoli passi, nel tempo, mi hanno aiutata più di quello che potrebbe sembrare.
Fine della premessa.

Stamattina stavo posticipando il momento di iniziare a lavorare quando mi è apparso nella bacheca di Facebook un post di un sito che seguo da molti anni, da quando era soltanto un piccolo blog, e che nel tempo si è meritatamente ingrandito.
Il sito è quello di EfficaceMente di Andrea Giuliodori e contiene una serie di articoli molto ben fatti sulla crescita personale.
Il post in questione proponeva una selezione di TED Talks[1], un format che apprezzo molto e che presenta conferenze di valore condensate in una manciata di minuti.
La verità, devo ammetterlo, è che stavo procrastinando quello che avrei dovuto fare, così per essere coerente e rimanere in tema ho cliccato sul primo link, dedicato proprio alla procrastinazione.
La conferenza che ho ascoltato mentre bevevo il mio caffè era di un tale blogger americano, Tim Urban, che non conoscevo.
Il suo blog si intitola Wait But Why e spiega in maniera divertente – e non scientifica – cosa “succede” nel cervello di un procrastinatore.
In breve: la componente razionale è quella parte di noi che prende le decisioni e regge il timone delle nostre scelte. Nel cervello del procrastinatore, dice Urban, c’è un’altra componente, che chiama simpaticamente “la scimmietta della gratificazione immediata”.
È lei che fa deviare la rotta alla parte razionale che è dentro di noi finché non arriva una scadenza e, con essa, quello che lui chiama il “mostro del panico” il quale dandoci una bella svegliata ci costringe a fare ciò che abbiamo rimandato fino all’ultimo.
Questo mostro, però, è assente da tutte quelle attività che non hanno una scadenza, come le attività creative o andare a visitare persone care, fare sport e prendersi cura della propria salute.
Questo tipo di procrastinazione è la causa di scontentezza a lungo termine e di rimpianti perché, continua Urban, la procrastinazione a lungo termine fa sentire come spettatori della propria vita.
Urban non offre soluzioni, ma ritiene che tutti siamo procrastinatori ed espone una riflessione sulla brevità della vita e sull’importanza di darsi da fare e iniziare subito ciò che si sta rimandando.

Alla fine del video sono rimasta qualche minuto a riflettere e questo lavorìo mentale è rimasto costante anche mentre facevo la doccia.
C’era una vocina interiore che mi stava dicendo qualcosa, con una certa insistenza.
L’ho ignorata per un po’ finché non mi sono fermata, testa insaponata e tutto, ad ascoltarla.
E ho capito.
Quello che mi stava suggerendo era che la radice della procrastinazione, di ogni tipo di procrastinazione, è il vuoto.
Per vuoto intendo quella sensazione sgradevole e a volte dolorosa che ci danno tutte quelle emozioni negative che scavano dentro di noi – paura, rabbia, tristezza, odio, solitudine – sottraendoci quelle positive e impedendoci, appunto, una vita di “pienezza”.

Andrea Giuliodori, in altri articoli del sito, dice giustamente che i procrastinatori non se ne stanno quasi mai con le mani in mano. Fanno un sacco di cose, ma nessuna di queste è un’azione che li fa avvicinare ai proprio obiettivi.
Fare le pulizie, andare sui social, aprire il frigo in continuazione, fumare, bere…

È un po’ come accade a volte con i sensi di colpa.
Prima sentiamo – a un livello molto sottile e a volte inconsapevole – un vuoto dentro di noi che può avere le cause più disparate, da traumi dell’infanzia a credenze limitanti acquisite nel tempo.
A quel punto il nostro istinto, la nostra parte emozionale – la scimmia del video di Urban, direi – mette in atto una strategia per riempire quel vuoto, renderlo meno doloroso, e cerca una gratificazione immediata: un tweet o una birra, cosa importa?
Quello che “la scimmia” cerca di fare è solo di allontanare la paura, la rabbia, la tristezza: insomma, quel dolore che sente, lenendolo con qualche attività che offra immediato sollievo.
La componente razionale, però, non è soddisfatta: lei conosce la mappa, vede la meta e vuole seguire la direzione giusta.
È lei che regge il timone e che condanna questa reazione della parte emotiva, cioè tutte queste azioni “a vuoto” che non portano a nulla se non a perdere tempo o, peggio, farsi del male, e perciò giudica “la scimmia”.
Così, la nostra parte istintuale ed emotiva, oltre a provare quella sensazione di vuoto, si sente ferita e incompresa. La sua paura/tristezza/rabbia non viene riconosciuta, e si sente in colpa.
Noi ci sentiamo in colpa.
E cos’è il senso di colpa, se non ulteriore vuoto?
E così si innesca un circolo vizioso difficile da spezzare.
La procrastinazione, cioè l’azione di sostituire qualcosa che è necessario fare e che darà frutto tra molto tempo con qualcosa che dà una soddisfazione o un risultato adesso, è un modo per riempire un vuoto che abbiamo dentro.

Quello che io ho imparato è che non si possono selezionare le emozioni. Per essere felici, è necessario accettare la tristezza; e la paura è il lasciapassare per la libertà interiore.
È come aprire una porta: finché stiamo lì davanti, abbiamo paura di quello che c’è dietro, dell’ignoto. Una volta aperta e attraversata, è già alle nostre spalle, e ci conduce da qualche altra parte, verso quell’obiettivo che desideriamo tanto raggiungere.
La porta scompare e noi siamo passati a un altro livello.

C’è un video di un comico americano che si chiama Louis C. K., in cui spiega questa cosa molto bene. Lui mi piace moltissimo e ho visto quasi tutto quello che ha fatto. In questo video molti ridono, e in effetti lui è forte ma quello che dice, benché sia divertente, secondo me non è affatto ridicolo. 
A mio avviso funziona proprio come dice lui: se evitiamo quella tristezza cercando una gratificazione immediata e illusoria inviando sms a cento amici, quello che accadrà è che ce la porteremo sempre dietro e scaverà un vuoto dentro di noi.
Se l’accogliamo, invece, essa si esprimerà, per poi scomparire e lasciare il posto alla pienezza di sé e alla gioia.
Alla nostra qualità più alta di essere umani.
Riempiendo quel vuoto con l’amore per sé stessi forse non ci sarà più bisogno di colmarlo con soddisfazioni provvisorie, come i like di Facebook e la fetta di torta in frigo.
E per quanto mi riguarda non c’è nemmeno bisogno di razionalizzare cosa proviamo e perché lo proviamo: basta accoglierlo così com’è accettando la propria vulnerabilità [2] e amandosi, nonostante tutto, esattamente così come si è.
Se quello che penso ha un senso potrebbe essere che se riuscissimo ad abbracciare ogni emozione che proviamo, ad accettarla senza giudicarla, la scimmia si sentirebbe compresa e integrata e prenderebbe a sonnecchiare accanto a noi senza distoglierci. La nostra parte razionale sarebbe libera di guidarci dove desideriamo andare, fino alla soddisfazione di un benessere più stabile e duraturo.
In definitiva se, come credo, alla base della procrastinazione c’è sempre una mancanza, si tratta soprattutto di mancanza di amore di sé e di accettazione delle proprie paure, della rabbia e della tristezza che abbiamo dentro. Dei nostri limiti come esseri umani.

Alla fine, mentre mi stavo rivestendo, pensavo che forse uno dei metodi più efficaci per combattere la procrastinazione è dunque amare sé stessi, perdonare e perdonarsi.

E giungiamo così al motivo della premessa iniziale.
Mi sono seduta, ho preso un bel respiro, e mi sono “ascoltata”. Ho sentito cosa aveva da dire “la scimmia”, accogliendo qualsiasi emozione avesse voluto darmi.
Poi con un sorriso mi sono alzata per andare a fare con gioia quello che dovevo fare, salendo il mio gradino di oggi.

 


[1] TED (Technology Entertainment Design) è un marchio di conferenze statunitensi.  La sua missione è riassunta nella formula “ideas worth spreading” (idee che meritano di essere diffuse). Le lezioni abbracciano una vasta gamma di argomenti che comprendono scienza, arte, politica, temi globali, architettura, musica e altro. I relatori stessi provengono da molte comunità e discipline diverse. Fonte: Wikipedia.

[2] Qui il link a un altro video di Ted talks suggerito dal EfficaceMente sul potere della vulnerabilità di Brene Brown.

 

Apologia della noia

Dentro di noi vi è certamente un mondo inesplorato.
Per poterne calcare i sentieri è imprescindibile alleggerirsi del fardello della soddisfazione immediata e della ricerca del divertimento a tutti i costi.
Per poterlo visitare in lungo e in largo e trovare la propria vera strada, insomma, bisogna annoiarsi.

Che sia per ascoltare ciò che ha da dire la nostra voce interiore o per dedicarci a ciò che aneliamo portare a termine, è necessario avere a che fare con la noia.

Per quanto mi riguarda, per scrivere un romanzo, è indispensabile che io mi annoi.

Quello che intendo, lo spiego meglio qui, nel sito dell’editore Flower-ed.

Buona lettura!

La prima stesura di un romanzo e L’ Opera al nero alchemica

[Suggerimento musicale per la lettura: The crow_soundtrack]

 
Questi primi, gelidi giorni di Dicembre mi si stanno snocciolando sul calendario uno dietro l’altro sotto l’egida del Corvo.
A dire il vero, è da ottobre che il Corvo mi si è appollaiato su una spalla, e mi gracchia nell’orecchio con quel suo verso così dolce.
Il punto è che, con mio grande disappunto, che temo dovrò sorbirmi il suo gracchiare per altri mesi. Forse per tutto l’inverno.

CORVO IMPERIALE - Raven - Corvus corax - Luogo: Cogne (AO) - Autore: Alvaro

CORVO IMPERIALE – Raven – Corvus corax – Luogo: Cogne (AO) – Autore: Alvaro

Ogni tanto mi piace trovare parallelismi tra quello che faccio e l’alchimia. Un’abitudine indegnamente mutuata da Jung (anch’egli sovente co-protagonista dei miei post) e dalla lettura entusiasta del suo Psicologia e alchimia[1].
In questo saggio lo psichiatra svizzero prova a spiegare come le fasi attraverso le quali avviene l’opus alchemicum corrispondano a quelle del “processo di individuazione”, cioè quel processo nel quale si prende consapevolezza della propria individualità e si scopre la propria vera essenza interiore.
Jung approfondì successivamente questa interessantissima tesi in Psicologia del transfert(1946), Saggi sull’alchimia (1948) e nel Mysterium Coniunctionis (1956).

Quando la sciatica mi costringe a letto, soprattutto con la canicola estiva, mi consolo con letture leggere

Quando la sciatica mi costringe a letto, soprattutto con la canicola estiva, mi consolo con letture leggere

Dicevo: ogni tanto mi capita di riconoscere concetti che collegano la scrittura a quella paccottiglia di conoscenze mistico-esoteriche che mi ritrovo, mio malgrado, in testa per aver divorato parecchi libercoli su tali argomenti. Spesso, di pessima qualità e dubbio contenuto, devo riconoscerlo, ma talvolta forieri di pietre focaie utili a far brillare qualche piccola, debole e fugace scintilla di intuizione.

Abitualmente, non dedico spazio scritto a queste mie congetture, che rimangono nel mondo iperuranico delle (mie) idee, ma di tanto in tanto ho fatto qualche strappo alla regola, come ad esempio in questo articolo sulle quattro parole del mago e la creazione artistica.
Così, dimostrando grande coerenza, strappo di nuovo la regola che mi sono data io stessa, e scrivo (poche righe, lo prometto), sui tre stadi in cui la “materia prima” (l’idea di una trama) mescolata a un cucc.no di zolfo, ½ l. di mercurio e un pizzico di sale, e riscaldata a fuoco vivace nella padella dell’atanor, si trasforma nella pagnotta filosofale.
E qualcuno si starà chiedendo, cosa diamine c’entra questo con la scrittura?
C’entra, c’entra.
Questi stadi (i principali sono tre) prendono il nome dal colore che la materia assume man mano che trasmuta.

All’inizio, quando la materia si dissolve, putrefacendosi, abbiamo La Nigredo (Opera al nero, rappresentata da un Corvo). Poi, la stessa passa alla fase successiva, in cui si purifica sublimandosi, chiamata Albedo (Opera al bianco, rappresentata da un Cigno), fino a quando non si ricompone e si fissa in una nuova struttura, migliore, che è la Rubedo (Opera al rosso, rappresentata da una Fenice).

Ora, io sfido qualsiasi scrittore a non raccontare la propria esperienza di scrittura e stesura di un romanzo che non passi da tutte e tre queste fasi.

Prima stesura.
Arriva un’idea, o un personaggio. Le/gli si appicciano sopra un paio di ostacoli, e si prova a immaginare come si può sviluppare/reagisce. Si abbozza una trama. Si iniziano a vomitare parole a caso, una dietro l’altra. E man mano che si procede, il personaggio prende vita, acquisisce spessore, vive di vita propria e sceglie cose che tu scrittore non hai previsto. Così, la struttura iniziale, si modifica. Spesso, dopo uno o due mesi di scrittura, i personaggi sembrano un po’ appassire. La trama non ci sembra più tanto coerente e, di pari passo, la nostra determinazione inizia a cedere. Sì, insomma, come scriveva Anton Čechov “Qualsiasi idiota può superare una crisi. È il quotidiano che ci logora”.

Continuare a scrivere nonostante le idee che si dissolvono e la nostra determinazione inizi a odorare di stantio, non è facile, e richiede una certa presenza di spirito. Le visioni che abbiamo in testa, che sembravano così brillanti o divertenti o drammatiche, sbiadiscono. Anzi, meglio: si dissolvono, putrefacendosi.

Eccola qui, l’Opera al Nero.

Eccola, la prima stesura di una trama, inizialmente lucidata a dovere e strutturata in un certo modo, che non ha proprio voglia di stare lì ferma e rigida, e si ribella stiracchiandosi e agitandosi.
Lo scrittore inesperto non lo aveva previsto e la sua volontà inizia a cedere sotto i colpi impietosi, ma ahimé inesorabili, della Nigredo.
Come dice Neil Gaiman: “Tutti sono capaci di iniziare un romanzo. Se sei uno scrittore, puoi anche finirlo”. È proprio a questo punto che, i più, abbandonano.

La nostra prima stesura muove i suoi traballanti passi sotto le ali del Corvo, tra i miasmi putrescenti della Nigredo.
Arrivare fino alla fine richiede qualità interiori sulle quali il buon Jung ha sprecato parecchi etti di carta.

Durante la revisione (seconda fase), il testo si sfoltisce. Si tagliano le parti noiose (si spera), si snelliscono i personaggi e si alleggeriscono le scene. Anche la sintassi perde le zavorre dei pensieri confusi della prima fase oscura. Si decide di riscrivere qualche parte (a volte interi capitoli) e di tagliare/aggiungere personaggi, dialoghi, o cambiare la voce narrante.

È l’Albedo. La revisione ha (o meglio, dovrebbe avere) il candore del Cigno.

E infine, ciò che si è deciso durante la purificazione della “materia prima” (la nostra storia, le nostre idee), viene fissato di nuovo, nella seconda stesura (ma facciamo anche nella terza, quarta, eccetera eccetera).
La trama si fissa, e ogni cosa trova il suo posto. L’idea iniziale non sembra così orrenda, con questo nuovo vestitino e il fiocco tra i capelli. Anzi: pare anche graziosa.

La seconda stesura è la Rubedo. La Fenice risorge dalle sue ceneri.

Sarà bello quel momento, ma non è oggi.
Oggi, ho il pennuto nero che mi artiglia la spalla e gracchia il suo verso stridulo dentro l’orecchio e dritto fino al cranio.
È in momenti come questi che fatico a non rinnegare la mia scelta etica vegetariana, resistendo per non mettergli le mani al collo e strozzarlo.
Non posso. È una fase obbligata e necessaria.
Devo soltanto resistere.
Giungerà il candido Cigno scivolando sulla pelle dell’acqua. Giungerà, con tutti i suoi problemi, le ansie da revisione e le insicurezze che si trascina dietro.
Oh, giungerà. Ma non è questo il giorno.
E dopo di lui, sorgerà la Fenice, con la sua disperata resistenza e il suo fulgore dorato striato di rosso.
Sorgerà, ma non è questo il giorno.
Uno dopo l’altro verranno a dare il cambio al Corvo.
E poi?
E poi niente, si ricomincia.

La Grande Opera non è nel risultato, ma soltanto nell’opus. Appunto.

Lui disapprova la procrastinazione (immagine presa dal web)

Lui disapprova la procrastinazione (immagine presa dal web)

E adesso scusate, ma devo proprio lasciarvi. Devo dar da mangiare al pennuto: un migliaio di parole almeno, o non la smetterà più di gracchiare.

 


[1] Jung Carl G, Psicologia e alchimia, Bollati Boringhieri (2006, XIV-552 p., ill., brossura)

 

“Come and See. You have the key” (India. Photobook. Photojournalism. Children. Noprofit.)

 [Suggerimento musicale per la lettura. Ennio Morricone: The Mission]

Pur praticando la Meditazione Universale della Scuola della Spiritualità, derivata dalla tradizione radhasoami della Sant Mat induista, non ho mai visitato nemmeno un tempio, o  passeggiato per le strade dell’India, nei suoi colori e tra la sua gente.
Ma ho un caro amico che ci è stato.
Si chiama Leo Fabbrizio, e ha una passione per i viaggi e la fotografia (è lui che mi ha fatto queste foto con il maestro Tonino e il Bibliomotocarro).

Una sera di Agosto mi ha raccontato di aver visitato il più grande Slum di Mumbai, nel Dharavi, per mezzo dell’associazione “Reality Gives” che, grazie a questo tour, raccoglie i fondi per promuovere iniziative a favore dei bambini svantaggiati che abitano lì.
Davanti a una tazza di tè ghiacciato, Leo mi ha raccontato quello che ha visto e vissuto e provato in quel viaggio straordinario.
Mi ha fatto vedere le foto che aveva scattato, mentre mi descriveva le loro povere condizioni di vita. Soprattutto, mi ha parlato dei bambini, dei loro sorrisi e dei loro occhi, brillanti come diamanti nella polvere.
Sono andata via da casa sua molte ore dopo, turbata e commossa.
È per questo che quando, qualche mese dopo, mi ha chiesto una mano per realizzare un progetto di crowdfunding e contribuire pragmaticamente a migliorare le cose, non ho potuto rifiutare. Insieme a un grafico e una traduttrice, ho aiutato con quello che so fare meglio: scrivere.
In una manciata di incontri  a distanza su Skype con gli altri “membri della squadra”, altrettante telefonate, messaggi su WhatsApp e brainstorming dal vivo, l’idea ha preso forma.
Ora il progetto è on line, sulla piattaforma Indiegogo.

Si chiama “Come and See. You have the Key”.
questo link puoi trovare tutte le informazioni.
 Qui la pagina facebook.

Se sei arrivato a leggere fin qui, e magari hai intenzione di sbirciare di là nella pagine di Indiegogo per capire di cosa si tratta e, come me, hai sentito anche solo per un attimo che sarebbe piaciuto anche a te riuscire a far brillare due occhi e un sorriso nella polvere, ti do una buona notizia.

Puoi farlo.
Puoi contribuire.
Anche solo con un euro puoi fare la differenza.
Per Natale, regalati qualcosa di importante. Regalati il sorriso di un bambino.
Non c’è gioiello più bello che tu possa indossare, né indumento più caldo.

Aiutami a condividere questo link.

Grazie.

 
 

La macchina del tempo, ovvero “Il Bibliomotocarro” del maestro Antonio la Cava, e un sogno da realizzare.

[Suggerimento musicale per la lettura: La vita gaia-G. Coggi]

 

“Nella vita tutto si fa col gioco,
niente si fa per gioco”
Sir Robert Baden-Powell, fondatore dello scautismo

 

Oggi voglio raccontarvi una storia che parla di un potente stregone, del suo carro magico, e di come abbia insegnato ai suoi piccoli apprendisti a viaggiare nel tempo.

Questa storia ha inizio in estate, in un torrido pomeriggio di agosto.

Fa molto caldo, nella mia terra natia, a Ferrandina, in Lucania.
Sono tornata per fare visita ai miei e per godere della calma di questo piccolo paese nascosto tra i calanchi bollenti. Per caso, mi è capitato tra le mani un quaderno di esercizi. Un mio quaderno delle scuole elementari che mia madre aveva custodito.
Avevo appena sei anni, e scrivevo l’alfabeto.

È così che comincia la storia, con una telefonata al mio maestro delle scuole elementari, Antonio la Cava, più bonariamente conosciuto in paese come “il maestro Tonino”. Gli ho proposto di incontrarci, per parlare e per fare qualche foto al suo Bibliomotocarro.
Erano passati più di vent’anni dall’ultima volta che ci eravamo visti.

L’appuntamento è a villa Pinocchio, un piccolo parco dedicato all’infanzia.

Quando è arrivato, al suono della marcia ‘La vita gaia’, i bambini presenti sono stati catturati dalla sua magia. Hanno smesso di giocare a pallone, hanno abbandonato le bici per terra, e si sono avvicinati a quella straordinaria biblioteca itinerante.

Il maestro in pensione è saltato giù con sorprendente agilità, ha aperto le porte di quell’incantato luogo-non luogo e ognuno di loro ha scelto un libro per sé. Alcuni si sono seduti sulle panchine e hanno iniziato a sfogliarlo, altri lo hanno riposto negli zainetti, come se fosse uno scrigno del tesoro da aprire a casa, e hanno ripreso a giocare. Nessuno di loro ha lasciato il nominativo e il maestro non ha annotato alcuna data, né titolo. L’ho guardato con aria interrogativa, e lui sorridendo mi ha risposto: La fiducia è un valore che va insegnato con l’esempio, non a parole. Io mi fido di loro, e loro ricambiano. Nessun bambino mi ha mai rubato un libro.
Lo so, conosco il suo metodo educativo, essendo stata io stessa sua alunna molti, molti anni fa. Lui aveva tutti i capelli neri, all’epoca, e la giacca. Adesso ha i capelli lunghi, e canuti, e indossa pantaloni colorati, ma i modi sono gli stessi di sempre. Il suo sorriso, pure.

Ci siamo seduti a chiacchierare, ma sono arrivati altri bambini che hanno portato i loro amici a prendere un libro, e lui si è alzato per aiutarli a scegliere, in base all’età, o ai gusti, o al carattere. L’ho osservato passare in rassegna i titoli dei libri affastellati nella sua biblioteca con le ruote, e soffermarsi su quello giusto. Mi ha ricordato un personaggio della commedia dell’arte, un commediante fuoriuscito dal romanzo ‘Il capitan Fracassa’, proprio quel capo comico del carro di Tespi, Erode il Tiranno, l’omaccione dall’aspetto burbero ma dall’ animo generoso e mite. È lui che conduce la compagnia di comici nel carrozzone colorato e rumoroso, viaggiando in lungo e in largo per strade sgangherate e solitarie.
Per inciso, quel libro me lo prestò proprio il maestro Tonino, tanti anni fa.

Nel frattempo è arrivato Leo Fabbrizio, bravissimo fotografo e mio amico, al quale ho chiesto di fare qualche foto al bibliomotocarro, e a noi. Ci mettiamo d’accordo sul posto in cui scattarle, e ci avviamo. Il maestro mi chiede di fargli compagnia, e salgo su quel motocarro trasformato in biblioteca mobile.

Il suo progetto è semplice, di una semplicità che cozza con la crescente complessità degli stili di vita occidentali. Portare il libro nei paesini che non hanno una libreria. Gratuitamente.
Contrapporre la lentezza alla velocità, e il silenzio al rumore.
“Ma come”, direbbero i malpensanti, “nell’epoca della post-modernità, in cui tutto vola e fugge, in cui il webdomina la vita di ognuno, e la rete offre tutto ciò che si potrebbe desiderare, c’è ancora bisogno di libri trasportati su un’Ape che non supera i 45 km orari?”
La mia risposta è: sì, ora più che mai.
Perché navigare nel web è importante, ma più importante ancora è avere un molo di partenza, e uno di arrivo. E questo molo dal quale noi tutti dovremmo partire, è il libro.
Che niente può sostituire.

La piccola-grande biblioteca itinerante, foto di Leo Fabbrizio

La piccola-grande biblioteca itinerante, foto di Leo Fabbrizio

Il bibliomotocarro, all’interno, è piccolo, ma comodo. Quando passiamo per le vie del paese alcuni sollevano la mano per salutarci.
Il mio maestro è sempre stato un anticonformista. Eravamo gli unici a non avere l’obbligo di indossare il grembiule “per non essere uniformati”. Si atteneva poco ai programmi ministeriali, e riteneva impossibile (parola sua) insegnare la geografia nello spazio limitato da quattro pareti che era la classe. Invece di farci imparare i nomi dei laghi principali dell’Italia, chiamava l’autobus cittadino (guidato da mio padre), e ci portava alla diga.
Laggiù, in mezzo al fango e ai girini, ci spiegava come la grandezza del genio umano, e le tecniche dell’ingegneria, imbrigliavano la forza dell’acqua. Noi la vedevamo, quella grandezza, con le bocche aperte e gli occhi spalancati, e lo assillavamo di domande. Cresceva in noi l’amore per la conoscenza. La scuola, ce la faceva dal vivo.
Eravamo la classe che stava meno in classe.

Ci insegnava con il gioco, ci insegnava la meraviglia, la curiosità per ciò che ancora non conoscevamo. Ci sarà tempo, diceva ai miei genitori quando c’erano gli incontri annuali, per riempire il secchio. Ora dobbiamo accendere il fuoco.
E la mattina fremevo d’impazienza quando mia madre ci metteva più del dovuto a farmi le trecce. Volevo andare a scuola, e volevo andarci presto.

Mentre scorrazziamo per le strade sconnesse di campagna, la sua voce mi porta indietro nel tempo.
Alcuni miei compagni avevano dei caratteri irrequieti. Non si applicavano granché, e difficilmente imparavano le nozioni fondamentali. Ma per ognuno di loro, il maestro aveva una parola di incoraggiamento. Sempre. Troverai la tua strada, non avere timore, diceva. Devi solo capire cosa ti piace, e presto o tardi lo capirai.
Aveva fiducia in noi. Me lo ricordo bene, perché c’ero. Ci chiamava ‘fanciulli’, che è un termine forse un po’ desueto, ma molto poetico, che mi è rimasto molto caro.

Presi dai nostri problemi quotidiani, dalle faccende urgenti della vita, a volte dimentichiamo le cose importanti, quelle più vere. Dimentichiamo di essere riconoscenti per le cose essenziali, che diamo per scontate, come il saper leggere.
Che tutti noi sappiamo e possiamo leggere è una conquista della modernità. La possibilità di apprendere il pensiero di uomini straordinari, le loro idee, la loro intelligenza, fa di noi degli esseri liberi. Dovremmo tutti essere riconoscenti ai nostri maestri delle scuole elementari.
Ancor più se, oltre a insegnarci a leggere (che già di per sé è un debito che non potremo mai estinguere), ci hanno insegnato ad amare la lettura. A me è successo.
Questo amore è diventato parte integrante della mia esistenza. I libri sono stati, e sono tuttora, il mio rifugio. Tutto ha avuto inizio quasi trent’anni fa.

La mia classe con il maestro. Io sono la quarta da sinistra, in piedi, con il maglione a righe bianche e rosse

La mia classe con il maestro. Io sono la quarta da sinistra, in piedi, con il maglione a righe bianche e rosse

La mia classe era ampia e spaziosa, e le larghe vetrate davano sulla strada principale e sugli alti alberi che si spogliavano e ricoprivano di foglie col volgere delle stagioni.
Quando leggevo goffamente, aiutandomi con il mio dito paffuto di bambina, il maestro mi si avvicinava e mi diceva (in qualsiasi modo io avessi letto): brava. Adesso rileggi, e fa’ attenzione alla punteggiatura. Le virgole e i punti sono sempre bistrattati, nessuno li nota mai, ma tu fa’ loro compagnia. Non li abbandonare, dai loro considerazione. Vedi questa virgola, questa qui che hai appena passato, è una piccola pausa. Vuole che ti fermi un istante, e le fai l’occhiolino. Il punto no, il punto è un po’ presuntuoso, vuole che ti fermi. E gli stringi la mano. Hanno bisogno di coccole, come tutti.
Io leggevo, e prendevo a cuore la punteggiatura. Ci passavo interi pomeriggi a dare alla punteggiatura ciò che il resto del mondo dimenticava di darle: considerazione.

Mi sembra ieri che quest’uomo appassionato si sedeva accanto alla bambina con le trecce.
Vedi Rosanna, un libro non è fatto solo da parole infilate una dietro l’altra. La lettura, è musica. Ogni frase ha un suo ritmo, dei passi che ti spinge a fare. E noi, noi che leggiamo, danziamo su questa sinfonia. E le parole ci portano lontano, lontano, in altri mondi. Viaggiamo nel tempo, e non lo facciamo in una fredda navicella spaziale, legati con la cintura. Lo facciamo danzando. Trova la musica, e troverai la magia.

E io la trovai.

Un pomeriggio di un inverno rigido di venticinque anni fa, mio padre mi portò un libro preso all’oratorio.
Era da poca passata l’ora di pranzo. La mia casa era silenziosa, i miei fratelli erano fuori a giocare. Lo aprii e cominciai a leggerlo, e sentii la musica.
Quando lo terminai era sera inoltrata, e la casa era piena di gente. I miei zii e cugini erano venuti a farci visita. I miei fratelli erano rientrati e c’era un gran chiasso, ma io non li avevo sentiti! Mi erano passati accanto e mi avevano accarezzata. Non li avevo sentiti entrare, salutarmi e chiacchierare. Ero completamente ed irrimediabilmente persa in quella storia, e non ero lì con loro. Ero in Inghilterra, e fuori non c’erano automobili, ma carrozze.
Il romanzo era “Un canto di Natale”, di Dickens, e io lo amai con tutto il cuore.
Fu il mio primo viaggio nel tempo.
Confesso di non aver mai imparato le tabelline, davvero, ma da allora non mi sono più fermata: ho viaggiato in lungo e in largo. All’età di dieci anni ero già stata in Francia, con Cosetta de I miserabili; in Russia, dove avevo pianto commossa il destino di Anna Karenina; poi di nuovo in Inghilterra, per fare amicizia con David Copperfield, e poi ancora nell’Oceano Atlantico, a contare casse di rhum ne L’isola del tesoro.

Nelle mutevoli vicende della vita il piacere della lettura non mi ha mai abbandonata.
Ho cambiato tutto, crescendo: lavori, amici, luoghi. Solo una cosa è rimasta costante, sempre: l’amore per i libri. Sono stati palestre di libertà, e conforto nei momenti bui.
Quando studiavo all’università e tornavo a Ferrandina da Roma, avevo con me due borse: una per i vestiti, l’altra per i libri da leggere. Adesso ho un e-reader, più pratico negli spostamenti, che non sostituisce i manoscritti cartacei, ma li affianca.
Un giaccone non era adatto a me se non aveva le tasche abbastanza ampie da contenere un libro, e quando divenni adulta nessuna borsetta a baguette, per quanto fosse alla moda, andava bene se non era abbastanza larga per un romanzo.
Ho davvero vissuto mille vite, e viaggiato nel tempo e nello spazio, come mi aveva promesso il mio maestro, tanti anni prima.
Non conosco i nomi di tutti i laghi d’Italia, e non conosco i nomi di tutti i capoluoghi di provincia, e non mi è mai servito saperli a memoria.
Quello che mi è servito imparare davvero, io l’ho avuto.

La voce del maestro è sempre la stessa. Mi parla di quando era bambino lui, di come leggeva alla luce di una sola candela. Di come fosse convinto che fosse il fuoco del camino a ispirargli piccole poesie che lui, poi, riconoscente, riconsegnava alla fiamma. Si ricorda di ognuno di noi, mi dice di quanto fossimo una bella classe. Mi racconta di me, di come ero, di quanta allegria portassi, e un po’ mi rattristo al pensiero che la vita, a tratti, l’ha spenta, quell’allegria.

Arriviamo nel posto concordato, un belvedere sul piccolo paese in cui sono cresciuta, e Leo, nel suo solito modo gentile, ci scatta qualche foto.

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Il maestro Tonino, il bibliomotocarro, e io, poco prima di andare via. Foto di Leo Fabbrizio.

Sul web la sua biblioteca itinerante è diventata famosa. Molti programmi televisivi e giornali ne hanno parlato, perfino Oltreoceano; dozzine di articoli hanno fatto il giro della rete.

Pluripremiato, perfino in Campidoglio con il premio Simpatia, è una celebrità, il maestro Tonino, ma lontano da qui.

Non sono molti a sapere di quanto si parli di lui, di come sia giustamente citato ad esempio da seguire. Deve essere difficile possedere una personalità così eccentrica ed affascinante in un paese così piccolo. Ci vogliono profondità e coraggio per essere se stessi sempre, e il maestro Tonino ne ha sempre avuti, dell’una e dell’altro. Ed è per rendere merito a questo che io voglio umilmente esprimergli tutta la mia stima e la mia infinita gratitudine.

Al ritorno, mentre mi accompagnava a casa, il maestro mi ha accennato un suo progetto: fare il giro d’Italia con il bibliomotocarro (tutte le informazioni qui). Portare ancora ai bambini la gioia di leggere, oggi come allora, percorrendo tutto lo stivale con la sua Ape che, lo ripeto, raggiunge una velocità massima di 45 km/h.

Invito tutti color che vogliono, e possono, ad aderire all’iniziativa, per rendere reale questo sogno, ed aiutare il maestro a portare la sua saggezza e il suo fuoco a tutti i bambini d’Italia.
Riporto il suo personale appello:
“il giro d’Italia in Bibliomotocarro è come il GIRO CICLISTICO: con tappe di partenza e di arrivo; per realizzarlo occorrono persone, associazioni, pro-loco, librerie, altro, distribuite su tutto il territorio nazionale (almeno una in ogni regione), disposte ad organizzare un evento o un’iniziativa di promozione del libro e ad ospitare nella notte il Bibliomotocarro. Quando saranno arrivate tutte le disponibilità ad ospitare per una TAPPA D’ARRIVO il Biblomotocarro, l’organizzazione del Giro stilerà il calendario possibile, tenendo conto delle richieste pervenute rispetto alle date indicate: certo, non è semplice, ma è possibile e, comunque, vale la pena provarci. Allora avanzate le richieste, indicando le vostre date preferite (più di una per agevolare il lavoro di sintesi). Per le spese di viaggio troveremo una soluzione, magari uno sponsor o più di uno. Intanto mi affascina l’idea che fino a ieri sembrava un sogno, oggi appare una possibilità: E SE DOMANI FOSSE REALTA’?”

Se lo fosse, sarebbe una realtà meravigliosa.
È una cosa che ha valore, una magia. Credetemi.
Io lo so, perché sono stata una sua apprendista, e l’ho imparata.

Per info e contatti
Sito: www.ilbibliomotocarro.com

mail: ilbibliomotocarro@gmail.com
Te.: 3313130303

 

La quarta parola del mago: TACERE, e la creatività.

[Suggerimento musicale per la lettura: H. Zimmer_A hard teacher]

 

Ed eccoci giunti all’ultima delle quattro parole del mago. Dopo sapereosare e volere,  è il momento di TACERE.

Secondo Eliphas Levi tacere è “una discrezione che nulla può inquinare o corrompere”.
Credo che la linea di divisione tra “realtà” e “immaginazione” sia più sottile di quanto siamo disposti ad ammettere.
Il nostro inconscio non fa alcuna differenza tra realizzare e dire di aver realizzato.
Se diciamoparliamo e spieghiamo i nostri progetti, per il nostro inconscio sarà come averli già realizzati. Che gli altri ci critichino o ci lodino, per la nostra essenza più profonda sarà come aver già partorito la nostra creazione, e poco importerà se sarà solo un embrione: avremo comunque avuto la nostra ricompensa.
Sedersi a un tavolo, tutti i giorni alla stessa ora, far “propria tutta la noia”, come scriveva Auden nella sua poesia “Il romanziere”(1), e cercare di dare un senso compiuto alla nostra creatura sarà ancora più arduo e monotono: chi vuole scrivere due volte lo stesso romanzo?
Inoltre, mostrare prematuramente un progetto a qualcuno, compresi coloro che ci vogliono bene, equivale a piazzare un bambino su una bici quando è ancora incapace di camminare.
Qualsiasi critica, seppur in buona fede, è capace di distruggere le nostre migliori buone intenzioni.

G. G. Marquez alla scrivania

G. G. Marquez alla scrivania

In “Vivere per raccontarla”, Gabriel Garcia Marquez, riferendosi a un consiglio che gli diede Ramón Gómez de la Serna, scrive:
“Ma quello che seguii sempre alla lettera fu la frase con cui quel pomeriggio si congedò da me:
«la ringrazio per la sua deferenza, e in cambio le darò un consiglio: non mostri mai a nessuno la versione provvisoria di quello che sta scrivendo».”(2)
I giudizi altrui, la loro disapprovazione, il biasimo, anche la loro opinione più gentile, ci fanno cadere preda del vittimismo e alimentano la mancanza di fiducia in noi stessi. Usare le critiche come alibi ci deresponsabilizza. Ci autocommiseriamo, sabotandoci. Questo atteggiamento va sconfitto, colpendolo proprio laddove è più forte: nel bisogno che abbiamo di essere compresi, accettati, amati.

Essere discreti significa non esporre il fianco. Non contaminare la creazione, che è un atto sacro, con desideri narcisistici. In fin dei conti, faccio ciò che faccio non per pavoneggiarmi, ma perché mi è indispensabile farlo.

Perciò SAPERE, e spingersi oltre il conosciuto.
OSARE, avendo il coraggio di desiderare.
VOLERE, con disciplina, costanza, impegno.
TACERE, per proteggere la propria visione finché non sarà forte abbastanza da affrontare il mondo.

Ecco cos’è, la magia. Così facile, così difficile.

Un esercizio utile è, alla sera, ripensare alla nostra giornata. Con chi abbiamo parlato dei nostri progetti, delle nostre aspirazioni? cosa avremmo potuto evitare di dire? lo abbiamo fatto per puro desiderio narcisistico o per altro? e cosa è questo “altro”? cosa ha provocato, in noi, il fatto di averne parlato?

Viandante sul mare di nebbia, Caspar D. Friedrich

Viandante sul mare di nebbia, Caspar D. Friedrich

 


(1)Appuntato al talento come a un’uniforme,
/il grado dei poeti è noto a tutti;
/stupirci come un temporale possono,
/morire tanto giovani, per anni viver soli.//Possono scatenarsi come ussari: ma lui deve/
liberarsi del suo dono puerile e apprendere
/a esser complesso e semplice, a esser uno
/che nessuno si sogna di seguire.//Per realizzare il più facile dei suoi voti,/
deve infatti far sua tutta la noia,/
prono agli ovvi lamenti dell’ amore, tra i Giusti//esser giusto, tra i Luridi essere pure lurido,/
e, se può, nel suo debole Io deve soffrire/
senza intendere tutti i misfatti dell’Uomo.

(2) Gabriel García Márquez, Vivere per raccontarla, Edizioni Mondadori (Scrittori Italiani e Stranieri). Traduzione di Angelo Morino.

 

La terza parola del mago: VOLERE, e la creatività.

[Suggerimento musicale per la lettura: L.Einaudi_Primavera]

 
 
Dopo “sapere” e “osare”, la terza parola del mago è VOLERE.

Secondo Eliphas Levi volere è “avere una volontà che nulla può spezzare”.
A mio avviso la volontà è una questione di autostima. Esercitare la paziente costanza dell’esercizio ripetuto significa credere non solo in ciò che si fa, ma anche in ciò che si vale.
Io valgo il tempo, la fatica e il rischio di fallire.
Nella sua autobiografia Agatha Christie confessò: “c’è stato un momento in cui sono passata da dilettante a professionista. Mi sono assunta l’onere di una professione, che è scrivere anche quando non vuoi, non ti piace ciò che scrivi e non scrivi particolarmente bene” (1).

Agatha Christie

Agatha Christie

Ripetere lo stesso gesto, tutti i giorni, con qualsiasi condizione emotiva o di salute, facendo ciò che noi stessi abbiamo desiderato e deciso di voler fare, ecco cos’è VOLERE.

Scrivere un romanzo non ha nulla di romantico. Si tratta di infilare una parola dopo l’altra, sia quando questa parola ce l’abbiamo, sia quando proprio non sappiamo dove pescarla. Significa strappare intere pagine scritte male, perché comunque andava fatto. Significa imparare a creare senza attendere l’ispirazione, a rispettare una scadenza che noi stessi ci siamo dati, costi quel che costi. Perché ciò che facciamo ha valore, noi abbiamo valore.

Se non sono disposto a tanto, probabilmente è perché non mi stimo. Non credo in me, nelle mie capacità. Dubito del mio valore, e del mio ingegno. E allora qualsiasi altra cosa ha la precedenza su di me: i panni sporchi da lavare, quella telefonata alla cugina, la chiacchierata con l’amica che ha il cuore infranto.
Non basta osare: il passo successivo è altrettanto importante, perché altrimenti non sarò disposto a pagare alcun prezzo per qualcosa che non sono capace di stimare.
“Il talento vale poco. Ciò che conta è la disciplina”, diceva Andre Dubus (2).
Il temperamento artistico vale poco se non è supportato da disciplina, pazienza, cura e costanza.
Realizzare la visione che si ha dentro è possibile. Basta VOLERE.

Un buon esercizio è scegliere uno dei desideri formulati nel precedente esercizio e provare a strutturare tutto il processo che serve per realizzarlo. Dare una disciplina al proprio tempo, ordinarlo in modo che sia al nostro servizio per aiutarci a rendere reali e vive le nostre visioni.

 


(1) Agatha Christie, La mia vita, collana Oscar scrittori del Novecento, Mondadori.
(2) Olivia Carr Edenfield, Conversations with Andre Dubus (Literary Conversations), University Press of Mississippi (August 1, 2013)

 

La seconda parola del mago: OSARE, e la creatività.

[Suggerimento musicale per la lettura: R. Cacciapaglia_ Lux libera nos]

 
 
Dopo “sapere”, di cui scrivo qui, la seconda delle quattro parole del mago è OSARE.

Secondo Eliphas Levi, osare è “un coraggio che nulla può far vacillare”.
“Non sei capace”, “è troppo tardi per te”, “questo progetto è troppo ambizioso”, “sei brava ma non hai talento”, “pensa alle cose serie”: tutti ci siamo sentiti dire (e ci siamo detti) una di queste frasi almeno una volta nella vita, soprattutto in coincidenza dell’impegno profuso in un lavoro creativo.

Io mi arrabbio.
No, dico davvero: mi arrabbio con chi mi dice queste cose. Sublimo il sentimento distruttivo della rabbia e lo uso a mio favore, utilizzandolo per capire quando è il momento di dire “basta”.  E visto che ci sono, mi arrabbio anche con me stessa tutte le volte che la mia voce interiore censoria me le sussurra a tradimento.
Osare è desiderare qualcosa che ancora non ho ma che, alla luce della conoscenza acquisita, posso formulare.
È un fuoco che arde.
Le voci continuano: “potrei farlo, ma non ho tempo”, oppure “sarei capace, ma non posso permettermelo”.
Non è così.
Il “non posso” è sempre un “non voglio”. E non voglio, perché ho paura.

Per volere, che è la terza parola del mago, è necessario superare la paura, afferrare il coraggio a due mani e concedersi il diritto di desiderare.

La vita non è quella che ci insegnano, o quella che crediamo. Per me la vita è ciò che della vita facciamo.

Dopo aver accumulato sapienza, è necessario ritrovare il proprio potere personale e fare di tutto per favorire la propulsione in avanti dei propri desideri.

William Murray scriveva, citando Goethe: “C’è una verità elementare, la cui ignoranza uccide innumerevoli idee e splendidi piani: nel momento in cui uno si impegna a fondo, anche la provvidenza allora si muove. Infinite cose accadono per aiutarlo, cose che altrimenti mai sarebbero avvenute. Ho imparato un profondo rispetto per una frase di Goethe: Qualunque cosa tu possa fare, o sognare di poter fare, incominciala. L’audacia ha in sé genio, potere, magia. Incomincia adesso.”(1)
Per far fluire la magia è necessario avere il coraggio di desiderare, “un coraggio che nulla può far vacillare”, credere in se stessi sempre, e OSARE.
Un esercizio utile per me è pensare, di tanto in tanto, a cinque cose che vorrei e che non ho. Cinque cose che desidero davvero, materiali e immateriali. Chiedermi perché le desidero, cosa rappresentano per me e così via a ritroso, fino alla radice che alimenta il desiderio.

(1) William Hutchison Murray, “The Scottish Himalayan Expedition” (1951). La frase di Goethe a cui si riferisce proviene da una traduzione delle righe 214-30 del Faust ad opera di John Auster nel 1835. (Londra, Cassell, 1835, p.20).

Friedrich, "Luna nascente sul mare"

Friedrich, “Luna nascente sul mare”

 
 

La prima parola del mago: SAPERE, e la creatività.

[Suggerimento musicale per la lettura: Harry Potter, In Noctem]

 

Come scrivevo in questo post, quattro sono le parole del mago, quattro parole alla base di ogni atto creativo.

La prima è SAPERE.

Secondo Eliphas Levi, il sapere è “un’intelligenza illuminata dallo studio”.
“Intelligenza” deriva dal verbo intelligĕre, “capire”.

Intelligĕre è una contrazione del verbo latino legĕre, “leggere”, con l’avverbio intus, “dentro”. Intelligente, quindi, è colui che “legge dentro”, che va oltre la superficie e raggiunge il significato delle cose, in profondità.
Per sapere, è necessario avere un’ attitudine ad andare oltre l’apparenza delle cose, del già dato, del conosciuto.

Tolstoj alla scrivania

Tolstoj alla scrivania

Il 1 novembre 1864 Tolstoj scriveva a Fet: “non scrivo nulla, ma lavoro fino al tormento. Non vi potete figurare quanto sia difficile questo lavoro preventivo di aratura profonda del campo su cui dovrò seminare. Meditare e ripensare tutto ciò che può accadere a tutti i futuri personaggi della presente opera, assai vasta, e riflettere su milioni di combinazioni possibili, per poi sceglierne la milionesima parte, è tremendamente arduo. E di questo io mi occupo”.(1)
L’opera era “Guerra e pace” e lo scrittore impiegò cinque anni a scriverla.
Emilio Salgari, il creatore di Sandokan, non visitò mai la Malesia, le isole dei Caraibi o l’India, ma le studiò attraverso le enciclopedie, le riviste di viaggi e i libri scovati nelle biblioteche di Verona e Torino. Scrisse più di 80 libri, la maggior parte dei quali ambientati in luoghi che non vide mai.
Prima di creare qualsiasi cosa, bisogna SAPERE, e sapere è anche esperire. Vivere.
Se non si è mai amato nessuno, come si potrà scrivere dell’amore? se non si è mai fallito, come si potrà trasmettere ai propri simili il dolore della perdita?

Sapere non è facile. Richiede, come tributi, pezzi di sé.
Solo se si è disposti a lasciare il vecchio per il nuovo, a mettere in discussione le certezze, le sicurezze, il tepore del conosciuto, si può conoscere davvero.
Perdere pezzi di sé è la conditio sine qua non di qualsiasi atto creativo.
Tolstoj cambiò molte volte l’impianto del suo romanzo e mentre scriveva studiava le cronache, le lettere, le testimonianze della guerra di cui voleva raccontare.
La contessa Tolstoj annottava nel suo diario: “Lévocka (diminutivo familiare di Lev) in tutto questo inverno è irritato, scrive tra le lacrime e con agitazione”.(2)
Se non si crea “con agitazione” e perché non si ha nulla da perdere, non si sta mettendo in campo la cosa più importante: la possibilità di perdere le proprie certezze, la sicurezza del conosciuto, il benessere di ciò che è familiare.
Non si sta andando oltre, non si studia, non si esperisce. Non si SA.

Un esercizio utile è quello di imporsi, almeno una volta a settimana, di dedicare del tempo alla lettura di un romanzo, di un saggio, visitare una città o scoprire angoli nuovi di quella in cui si vive, chiacchierare con qualcuno facendosi raccontare esperienze diverse dalle proprie, ricordi, nuovi punti di vista.

biblioteca_antica

 


(1) TOLSTOJ, L., Guerra e pace, Roma, Gherardo Casini Edizioni Periodiche, Gennaio1966, pag. 8 dell’ Introduzione.
(2) Ibidem, pag. 11 dell’ Introduzione.