Del perché non sono degna di essere una social-qualcosa o “Come un pirata mi salvò da un naufragio”

L’uomo è l’unico animale
per il quale 
la sua stessa esistenza 
è un problema che deve risolvere.

Erich Fromm – Dalla parte dell’uomo, 1947

 

Tutto è nato da una citazione tratta da un libro a me caro con annessa foto dello scrittore. 
Una citazione che ho condiviso sulla mia Pagina Facebook affinché chi mi segue, se mi segue, aprendo l’applicazione dal cellulare la mattina se la ritrovi lì come riflessione, passatempo o semplice ‘buongiorno’.
Dicevo: tutto è nato da questa citazione che mi sembrava interessante condividere.
Dopo averla postata, mentre riprendevo la mia lettura, la vibrazione del cellulare mi ha notificato l’arrivo di una raffica di messaggi su Messenger.
Era una mia cara amica che mi dimostrava tutto il suo affetto scrivendomi:
– ma che sei scema a postare cose a caso sulla tua Pagina? Pazza!

Sorpresa dalla veemenza, rispondo:
– ma come sarebbe cose a caso? È Anton Čechov![1]
– Sì, può essere anche Sbirulino [!] ma l’ho notato, sai, che posti senza regolarità, quando te lo ricordi e con contenuti incoerenti l’uno con l’altro! Su Instagram, poi, metti foto che non hanno la stessa palette di colori. Insomma: stai facendo le cose a caso (per onestà intellettuale dirò che aveva scritto “a cazzo”, ma credo che due parolacce nello stesso articolo siano troppe, vedi più in basso). Non diventerai mai una professionista.
– E come dovrei postare, scusa? – chiedo, scendendo dal cocuzzolo della montagna del sapone per sentirla meglio.
– Ah, leggiti qualche manuale, e poi capirai.
E con questo suo vaticinio profetico aleggiante nell’aria ho posato i “Quaderni” di Čechov che stavo leggendo e mi sono messa a cercare questi fantomatici manuali che mi avrebbe insegnato come si sta al mondo virtuale.

Devo ammettere di averci provato. Con tutto il cuore. 

Io ci ho provato davvero a leggere quei libricini che spiegavano per filo e per segno come fare a “esistere in rete”, ma di ognuno sono arrivata a metà, senza mai terminarli.
Se a qualcuno interessa perciò sapere come funzionano attualmente (in data odierna) gli algoritmi di Instagram, sappiate che dovreste postare almeno tre foto al giorno, tutti i giorni, assicurandovi però di pubblicarle nei momenti in cui c’è maggiore presenza del target ideale (delineato selezionando accuratamente i propri ‘amici’). Inoltre è indispensabile che la griglia delle foto sia uniforme. Se fate un corso di fotografia è meglio. 
Che poi questo non c’entri nulla con ciò che fate, poco importa: le immagini la fanno da padrone nel mondo odierno, cazzo! (usare le parolacce negli articoli e nelle ‘didascalie’ è bene, fa molto ‘moderno’, confidenziale, colloquiale. Da Sociologa direi che livella verso il basso la conversazione in modo che una quantità maggiore di lettori possa trovarcisi bene, a proprio agio, sentendosi partecipe).
Sulla Pagina Facebook invece, è fon-da-men-ta-le postare almeno un articolo al giorno. O un post. Una foto. Una frase.
Ma non deve essere la stessa di Instagram: giammai! Sarebbe una eresia.
E non dimenticate che nei commenti ci deve sempre sempre sempre essere una domanda: e che, non lo vogliamo coinvolgere il “pubblico”?
Poi l’articolo deve essere di interesse generale. O, se non può esserlo, almeno interessare chi è interessato a interessarsi a te, insomma. Che sia utile, ma anche divertente, con un linguaggio giovanile, moderno: la forma colloquiale è quella che va per la maggiore.
Come ho scritto sopra, se ci mettete una parolaccia e un paio di punti esclamativi l’articolo si impenna, ma non esagerate! o finirete per dare una brutta impressione.
Chiunque faccia meno di questo, non esiste in rete. E se non esiste in rete, non esiste tout-court.

Io giuro che ci ho provato a seguire le regole, per un poco. Qualche mese, lo ammetto: dal mio compleanno del 24 febbraio in poi ho provato a postare regolarmente, con tutti i sacri crismi. 
Sembrava andare tutto bene finché mi sono accorta che per farlo, non stavo scrivendo più.
Il mio nuovo romanzo era rimasto a metà e giaceva lì da mesi. Ai racconti nella cartella delle bozze mancava l’editing, il piccolo saggio che avevo in mente di scrivere era stato soltanto indicizzato.
In compenso, credo di aver fatto delle belle foto su Instagram, eh, non dico di no (è abbastanza colloquiale quello “eh”?).
Così, appena nella mia vita è arrivata una tempesta (metaforica), sono stata soverchiata da una piena crisi creativa e ho smesso di fare tutto contemporaneamente. 
Niente Twitter (e va bene che già lo curavo poco), niente Instagram (se volevo fare la fotografa cambiavo mestiere), niente post giornalieri sulla Pagina Facebook (ma davvero ho qualcosa di speciale e intelligente e divertente da dire tutti i giorni a chiunque sia lì fuori?)

Il fatto è che a volte mi sento triste, o alienata, o prosciugata e non ho voglia  né tempo di fare finta di essere qualcos’altro.  

Sì, be’, certo un po’ strana lo sono. Ok, sono molto strana, al punto che quando lavoravo a tempo indeterminato presso una multinazionale i miei colleghi mi chiamavano “la strana”, però sono una strana innocua insomma.
Più o meno.
Comunque, ciò che intendevo, è che per me non ha senso postare sui social a ritmi massacranti per stare al passo dei milioni di input che arrivano ai nostri occhi tutti i santi giorni. Non so nemmeno quanta gente leggerà questo articolo e francamente non ho interesse a installare un plugin sul sito che me lo notifichi.
Non mi sento di fingere di essere sempre felice, o propositiva, o carica energeticamente. E non mi va nemmeno di scrivere cose depressive quando non mi sento in vena (ogni tanto va bene condividere un sentimento oscuro ma i social non sono il muro del pianto).
Credo che i social siano uno strumento, e perciò non dovrebbero diventare una ossessione. 
O diventerebbero, banalmente, il fine. 
Per stare al passo con tutto, ed esistere in rete, bisognerebbe imparare a conoscere e aggirare e manipolare gli algoritmi di Instagram e Facebook. Sembra facile, ma il fatto è che sono in continua evoluzione, perciò quando arrivano qui in Italia, oltreoceano sono già desueti: non si fa in tempo a imparare una nuova modalità che è già superata e bisogna rimettersi a studiare di nuovo, in un circolo senza fine.[2]

Volete sapere come è andata a finire quando ho smesso di fare tutto? è andata a finire che sono entrata in crisi, perché non ero “abbastanza” social per soddisfare le aspettative dei cosiddetti “professionisti” (non ho nemmeno un video su Youtube! sono proprio troglodita. Non escludo di farne uno prima o poi. Ci pensate? un canale youtube con un paio di video pubblicati a distanza di mesi o anni. Un cult proprio).
E in questo vortice di dubbi e tentennamenti, i miei lavori accumulavano polvere sulla scrivania.
Finché una notte in cui non riuscivo a dormire (mi capita spesso) mi sono alzata, ho fatto una doccia e mi sono servita un drink (leggi: ho bevuto un bicchiere di vino paesano, però “servirsi un drink” fa più scrittrice maledetta, e questo sui social pare tiri un sacco! anche la frase “tira un sacco” tira un sacco).

Non avevo sonno, non avevo distrazioni, intorno a me c’era silenzio. Dentro di me c’erano tristezza, confusione, paura.

Così ho acceso il computer, ho messo su le cuffie (scrivo sempre con la musica ad alto volume e le tapparelle abbassate ma dato che era notte questo secondo dettaglio non è influente) e ho iniziato a scrivere. 
A scrivere, a scrivere, a scrivere e ancora e ancora.
Così, ho buttato giù una storia di pirati, di un naufragio e delle peripezie di questi pendagli da forca per salvare la pelle e non diventare bocconi per i pescecani.
Mi sono gettata sul letto la mattina dopo verso le otto e ho dormito fino a mezzogiorno. Il pomeriggio, solita routine di vita finchè la sera, drink alla mano, ho ripreso la storia dove l’avevo lasciata.
Una storia di pirati e di un naufragio mentre io mi sentivo sballottolata qua e là dai marosi del web.
Forte, no? Tutt’uno con la mia arte.
Poi ho terminato un racconto: questo è più poetico, parla di un pesce rosso (ritorna il senso di soffocamento, comunque, come fil rouge. E non per via del pesce).
Poi, man mano che le mie priorità tornavano in ordine, ho cominciato a mettere mani al saggio: poco alla volta sta prendendo forma. Una cosa leggera, in verità, ma divertente da scrivere. Un saggio con un indice strutturato, come parafrasi dell’ordine che stava tornando nella mia professione.
Infine, ma mai per ultimo, ho ripreso in mano il romanzo che, abbandonato a sé stesso, mi ha svelato tutti i suoi punti deboli. Essendomi fermata a metà dovrò faticare un bel po’ per riprendere il filo da dove lo avevo lasciato (grave errore da fare durante una prima stesura, che posso depennare dalla lista intitolata “tanto ormai la cazzata l’hai fatta”).
Insomma, sono stata un tutt’uno con la mia arte, che è scrivere, e mi sono sentita subito meglio.
Cosa è successo in  questi mesi in cui non ho postato nulla sui social né in questo blog è esattamente questo: ho fatto della “buona arte”, come direbbe l’ottimo Neil Gaiman (se non lo avete ancora fatto, correte e vedere il suo discorso qui e leggetevi questo articolo).
Perché quando le cose vanno male e nella vita arriva una tempesta (ce ne sono sempre, per tutti), chi sa fare qualcosa ha un’àncora a cui aggrapparsi (a proposito di navi e di pirati): la propria arte.
Man mano che scrivevo, tiravo fuori le emozioni negative e dolorose e le legavo alla carta con i lacci dell’inchiostro, fuori di me. Da lì potevo guardarle meglio e prenderne le giuste distanze.

Se non mostri e non fai vedere, non esisti, dicono.
Sarà, ma io in quelle notti mi sono riconnessa, senza wireless, a me stessa. 
Nutro un amore incondizionato per le arti: poesia, letteratura, musica, pittura, eccetera eccetera, e ciò che mi tiene a galla non è la mia presenza sui social, né quanto di me sapranno “gli altri”, ma l’emozione che mi dà immergermi nell’arte. 
Scoppio in lacrime leggendo una pagina di un romanzo, ascoltando una canzone, una poesia o guardando un quadro. La mente non distingue tra ciò che è “finzione” e ciò che è “realtà” se questa finzione provoca emozioni, e dunque ricordi.
La morte di Beth in “Piccole Donne crescono” è una cosa che ho vissuto in prima persona. 
A Ginevra, durante una notte insonne (un’altra) ho ascoltato “Alla sera” di Foscolo interpretata da Roberto Herlitzka su questo video di Youtube e ho aperto la fontanella.
La scena “Le nozze rosse” de “Le cronache del ghiaccio e del fuoco” mi ha fatto impazzire: ho avvertito un buco proprio al centro del petto, un misto di dolore, rabbia e compassione.
Al termine della mostra “Van Gogh Experience” a Roma le mie amiche sono dovute venire a raccattarmi perché me ne stavo in un angolino tremante ed emozionata e un po’ fuori di me.
Due mesi fa, al concerto dei Radiohead a Monza non mi sono nemmeno accorta che durante l’esecuzione di ‘Exit Music (for a film)’ stavo piangendo: ero totalmente rapita dalla musica. Cantare a squarciagola “Black” durante il concerto di Eddie Vedder a Firenze mi ha aiutata a spingermi fuori da un periodo buio della mia vita. 
Per me, tutto questo non è accessorio, è fondamentale. Terapeutico.
Io funziono così. Perciò se mi concentro su cosa è meglio fare per “esistere” sul web, smetto di esistere nella vita reale e la cosa non mi conviene.

Perciò a chiunque me lo chieda o me lo faccia notare, in buona o cattiva fede, dirò che no, non sarò regolare nella pubblicazione dei miei post, o delle foto, o dei Tweet (mamma mia, Twitter non lo apro da una vita).
Lo farò quando crederò di avere qualcosa di interessante (secondo me) da dire, da comunicare, da condividere. Con buona pace dell’anima se questo renderà di me un dinosauro del web.
Diciamola così: chiedo comprensione a chiunque mi legga, perché non sono degna di essere una social-qualcosa. Scrivo e basta. Probabilmente non sono degna nemmeno di questo, ma ci provo lo stesso.
Potrei dire che il web è come un romanzo: i punti di svolta degni di nota, le frasi a effetto che ti entrano dentro e ti cambiano il modo di pensare e di sentire, i personaggi mitici, sono pochi.
Il resto, fa solamente volume.[3][4]

 


[1] Per incidens, la frase a caso in questione era “Qualsiasi idiota può superare una crisi; è il quotidiano che ti logora” tratta dai Quaderni.

[2] Per questo credo sia meglio, laddove possibile o necessario, affidarsi a professionisti, che fanno di questa dimensione di presenza on-line un mestiere a tempo pieno. Perché, di fatto, lo è.

[3] Secondo gli esperti questo articolo è troppo lungo. Tuttavia, spero ne apprezzerete lo stile colloquiale, unico frutto immaturo della mia lettura dei manuali sulla gestione dei social.

[4] P.S.: Una mia amica, leggendo il post, lo ha sintetizzato con un “non esisto, ma faccio buona arte”. Non so voi, ma a me questa frase piace un sacco e sento che mi calza a pennello. Molto di più, comunque, di “controllo gli Insigths e sono subito da te”.

 

Due fiabe al Bologna Children’s Book Fair

Io scrivo romanzi. Questo si sa (credo).
Quello che forse non si sa è che io scrivo anche racconti, sceneggiature e fiabe, oltre alla lista della spesa e le to-do-list che rimangono perennemente integre.
Queste cose non le scrivo con costanza (tranne la lista della spesa, quella sì) …

Presentazione del romanzo “Canterà il gallo” a Roma

Domenica 2 Aprile, alle ore 18:00, presento il mio romanzo “Canterà il gallo” a Roma, nella cornice di uno dei quartieri più belli e caratteristici di Roma, il Pigneto, presso “Tuba Bazar”, bar-libreria gioiellino dell’isola pedonale.
In compagnia dello scrittore Marco Capoccetti Boccia, che farà da relatore, trascorreremo insieme un’ora tranquilla e rilassata, magari sorseggiando…

Procrastinazione

La procrastinazione e il vuoto interiore. Una teoria.

“Non rimandare a domani
quello che può essere fatto dopodomani
altrettanto bene”.
Mark Twain

 

Per chiarire come sono giunta alle riflessioni di cui scrivo in questo articolo, ho bisogno di fare una breve premessa.
Ci sono stati periodi della mia vita in cui mi sono trovata a rimettere insieme pezzi di me che qualche evento aveva frantumato.
Durante uno di questi periodi, uno particolarmente difficile, feci una promessa alla me stessa che se ne stava in ginocchio, confusa e in lacrime, davanti alle macerie delle proprie illusioni.
Questa promessa era: “ogni giorno, un gradino”.
Quello che intendevo era: ogni giorno un movimento non meramente in avanti, occupando in orizzontale lo spazio della mia vita lungo l’apparente linea del tempo, ma in alto, verticale, verso un miglioramento continuo e un recupero della mia integrità.
Devo ammettere che ci sono stati periodi difficili, in cui fare quel passo mi è costata molta fatica ma sebbene sia stato un percorso non sempre agevole – per usare un eufemismo – ho tenuto duro.
Un giorno ho acquistato quel libro di Qì Gōng – comprato solamente, senza leggerlo – un altro giorno ne ho letto quella pagina – a volte avevo il tempo per un solo rigo -, oppure ho fatto dieci minuti di meditazione – a volte erano solo cinque -, ho inviato quel messaggio alla persona a cui voglio bene per chiederle come stesse – anche quando a stare male ero io -, sono scesa dall’autobus tre fermate prima per soddisfare le esigenze di movimento del mio corpo – anche se ero stanca, e pioveva.
Sembra poco, e a volte lo è stato, ma questi piccoli passi, nel tempo, mi hanno aiutata più di quello che potrebbe sembrare.
Fine della premessa.

Stamattina stavo posticipando il momento di iniziare a lavorare quando mi è apparso nella bacheca di Facebook un post di un sito che seguo da molti anni, da quando era soltanto un piccolo blog, e che nel tempo si è meritatamente ingrandito.
Il sito è quello di EfficaceMente di Andrea Giuliodori e contiene una serie di articoli molto ben fatti sulla crescita personale.
Il post in questione proponeva una selezione di TED Talks[1], un format che apprezzo molto e che presenta conferenze di valore condensate in una manciata di minuti.
La verità, devo ammetterlo, è che stavo procrastinando quello che avrei dovuto fare, così per essere coerente e rimanere in tema ho cliccato sul primo link, dedicato proprio alla procrastinazione.
La conferenza che ho ascoltato mentre bevevo il mio caffè era di un tale blogger americano, Tim Urban, che non conoscevo.
Il suo blog si intitola Wait But Why e spiega in maniera divertente – e non scientifica – cosa “succede” nel cervello di un procrastinatore.
In breve: la componente razionale è quella parte di noi che prende le decisioni e regge il timone delle nostre scelte. Nel cervello del procrastinatore, dice Urban, c’è un’altra componente, che chiama simpaticamente “la scimmietta della gratificazione immediata”.
È lei che fa deviare la rotta alla parte razionale che è dentro di noi finché non arriva una scadenza e, con essa, quello che lui chiama il “mostro del panico” il quale dandoci una bella svegliata ci costringe a fare ciò che abbiamo rimandato fino all’ultimo.
Questo mostro, però, è assente da tutte quelle attività che non hanno una scadenza, come le attività creative o andare a visitare persone care, fare sport e prendersi cura della propria salute.
Questo tipo di procrastinazione è la causa di scontentezza a lungo termine e di rimpianti perché, continua Urban, la procrastinazione a lungo termine fa sentire come spettatori della propria vita.
Urban non offre soluzioni, ma ritiene che tutti siamo procrastinatori ed espone una riflessione sulla brevità della vita e sull’importanza di darsi da fare e iniziare subito ciò che si sta rimandando.

Alla fine del video sono rimasta qualche minuto a riflettere e questo lavorìo mentale è rimasto costante anche mentre facevo la doccia.
C’era una vocina interiore che mi stava dicendo qualcosa, con una certa insistenza.
L’ho ignorata per un po’ finché non mi sono fermata, testa insaponata e tutto, ad ascoltarla.
E ho capito.
Quello che mi stava suggerendo era che la radice della procrastinazione, di ogni tipo di procrastinazione, è il vuoto.
Per vuoto intendo quella sensazione sgradevole e a volte dolorosa che ci danno tutte quelle emozioni negative che scavano dentro di noi – paura, rabbia, tristezza, odio, solitudine – sottraendoci quelle positive e impedendoci, appunto, una vita di “pienezza”.

Andrea Giuliodori, in altri articoli del sito, dice giustamente che i procrastinatori non se ne stanno quasi mai con le mani in mano. Fanno un sacco di cose, ma nessuna di queste è un’azione che li fa avvicinare ai proprio obiettivi.
Fare le pulizie, andare sui social, aprire il frigo in continuazione, fumare, bere…

È un po’ come accade a volte con i sensi di colpa.
Prima sentiamo – a un livello molto sottile e a volte inconsapevole – un vuoto dentro di noi che può avere le cause più disparate, da traumi dell’infanzia a credenze limitanti acquisite nel tempo.
A quel punto il nostro istinto, la nostra parte emozionale – la scimmia del video di Urban, direi – mette in atto una strategia per riempire quel vuoto, renderlo meno doloroso, e cerca una gratificazione immediata: un tweet o una birra, cosa importa?
Quello che “la scimmia” cerca di fare è solo di allontanare la paura, la rabbia, la tristezza: insomma, quel dolore che sente, lenendolo con qualche attività che offra immediato sollievo.
La componente razionale, però, non è soddisfatta: lei conosce la mappa, vede la meta e vuole seguire la direzione giusta.
È lei che regge il timone e che condanna questa reazione della parte emotiva, cioè tutte queste azioni “a vuoto” che non portano a nulla se non a perdere tempo o, peggio, farsi del male, e perciò giudica “la scimmia”.
Così, la nostra parte istintuale ed emotiva, oltre a provare quella sensazione di vuoto, si sente ferita e incompresa. La sua paura/tristezza/rabbia non viene riconosciuta, e si sente in colpa.
Noi ci sentiamo in colpa.
E cos’è il senso di colpa, se non ulteriore vuoto?
E così si innesca un circolo vizioso difficile da spezzare.
La procrastinazione, cioè l’azione di sostituire qualcosa che è necessario fare e che darà frutto tra molto tempo con qualcosa che dà una soddisfazione o un risultato adesso, è un modo per riempire un vuoto che abbiamo dentro.

Quello che io ho imparato è che non si possono selezionare le emozioni. Per essere felici, è necessario accettare la tristezza; e la paura è il lasciapassare per la libertà interiore.
È come aprire una porta: finché stiamo lì davanti, abbiamo paura di quello che c’è dietro, dell’ignoto. Una volta aperta e attraversata, è già alle nostre spalle, e ci conduce da qualche altra parte, verso quell’obiettivo che desideriamo tanto raggiungere.
La porta scompare e noi siamo passati a un altro livello.

C’è un video di un comico americano che si chiama Louis C. K., in cui spiega questa cosa molto bene. Lui mi piace moltissimo e ho visto quasi tutto quello che ha fatto. In questo video molti ridono, e in effetti lui è forte ma quello che dice, benché sia divertente, secondo me non è affatto ridicolo. 
A mio avviso funziona proprio come dice lui: se evitiamo quella tristezza cercando una gratificazione immediata e illusoria inviando sms a cento amici, quello che accadrà è che ce la porteremo sempre dietro e scaverà un vuoto dentro di noi.
Se l’accogliamo, invece, essa si esprimerà, per poi scomparire e lasciare il posto alla pienezza di sé e alla gioia.
Alla nostra qualità più alta di essere umani.
Riempiendo quel vuoto con l’amore per sé stessi forse non ci sarà più bisogno di colmarlo con soddisfazioni provvisorie, come i like di Facebook e la fetta di torta in frigo.
E per quanto mi riguarda non c’è nemmeno bisogno di razionalizzare cosa proviamo e perché lo proviamo: basta accoglierlo così com’è accettando la propria vulnerabilità [2] e amandosi, nonostante tutto, esattamente così come si è.
Se quello che penso ha un senso potrebbe essere che se riuscissimo ad abbracciare ogni emozione che proviamo, ad accettarla senza giudicarla, la scimmia si sentirebbe compresa e integrata e prenderebbe a sonnecchiare accanto a noi senza distoglierci. La nostra parte razionale sarebbe libera di guidarci dove desideriamo andare, fino alla soddisfazione di un benessere più stabile e duraturo.
In definitiva se, come credo, alla base della procrastinazione c’è sempre una mancanza, si tratta soprattutto di mancanza di amore di sé e di accettazione delle proprie paure, della rabbia e della tristezza che abbiamo dentro. Dei nostri limiti come esseri umani.

Alla fine, mentre mi stavo rivestendo, pensavo che forse uno dei metodi più efficaci per combattere la procrastinazione è dunque amare sé stessi, perdonare e perdonarsi.

E giungiamo così al motivo della premessa iniziale.
Mi sono seduta, ho preso un bel respiro, e mi sono “ascoltata”. Ho sentito cosa aveva da dire “la scimmia”, accogliendo qualsiasi emozione avesse voluto darmi.
Poi con un sorriso mi sono alzata per andare a fare con gioia quello che dovevo fare, salendo il mio gradino di oggi.

 


[1] TED (Technology Entertainment Design) è un marchio di conferenze statunitensi.  La sua missione è riassunta nella formula “ideas worth spreading” (idee che meritano di essere diffuse). Le lezioni abbracciano una vasta gamma di argomenti che comprendono scienza, arte, politica, temi globali, architettura, musica e altro. I relatori stessi provengono da molte comunità e discipline diverse. Fonte: Wikipedia.

[2] Qui il link a un altro video di Ted talks suggerito dal EfficaceMente sul potere della vulnerabilità di Brene Brown.

 

Apologia della noia

Dentro di noi vi è certamente un mondo inesplorato.
Per poterne calcare i sentieri è imprescindibile alleggerirsi del fardello della soddisfazione immediata e della ricerca del divertimento a tutti i costi.
Per poterlo visitare in lungo e in largo e trovare la propria vera strada, insomma, bisogna annoiarsi.

Che sia per ascoltare ciò che ha da dire la nostra voce interiore o per dedicarci a ciò che aneliamo portare a termine, è necessario avere a che fare con la noia.

Per quanto mi riguarda, per scrivere un romanzo, è indispensabile che io mi annoi.

Quello che intendo, lo spiego meglio qui, nel sito dell’editore Flower-ed.

Buona lettura!

Il mio augurio in una poesia d’amore, dopo l’amore.

Siamo ormai giunti al termine dell’anno.
Come ogni fine che si rispetti, essa altro non è che un nuovo inizio.
Ogni riga tirata, ogni solco tracciato fuori e dentro di noi, hanno una doppia valenza. Rappresentano due facce della stessa medaglia: costituiscono insieme linea di arrivo e linea di partenza.
La coda e la testa dell’ouroboros sono la stessa cosa.

In questo post non scriverò dei miei propositi per il 2017, né tirerò le somme del 2016. I traguardi raggiunti e gli obiettivi falliti appartengono a chi li vive: ai singoli trarre saggezza da ognuno di essi, nel bene e nel male.

Desidero però salutare questo nuovo anno che comincia, e onorare il vecchio che cede il passo, con una poesia.
Una raccolta di versi di straordinaria bellezza nella loro semplicità.
Parole che mi hanno accompagnata in questo anno, e ancora lo faranno nel nuovo, sostenendomi nella restituzione di quella consapevolezza necessaria a recuperare il bene più prezioso di tutti.
L’amore.

In calce ne riporto la versione originale, in lingua inglese.
Mi auguro di non averne rovinato l’originaria bellezza. La traduzione della versione in italiano, infatti, è mia. Nel farla mi sono seduta, e mi sono saziata, così come Walcott suggerisce, godendo di ogni parola e sfumatura di significato.
Ed è stato un tempo di qualità.

Esattamente quello che auguro a ognuno di voi in questo nuovo anno che ci attende.

I miei migliori auguri.

 

L’AMORE DOPO L’AMORE
Derek Walcott

Arriverà il momento
in cui, esultante
guardandoti allo specchio
saluterai il te stesso che arriva alla tua porta
e sorriderete ognuno al benvenuto dell’altro,
e direte: siediti. Mangia.

Amerai di nuovo
l’estraneo che eri tu.
Dagli il vino, dagli il pane.

Ridai il cuore a sé stesso,
all’estraneo che ti ha amato
per tutta la vita, che hai ignorato
per un altro, e che ti conosce davvero.

Tira via dallo scaffale le lettere d’amore
le fotografie,
le frasi disperate,
spella dallo specchio la tua immagine.
Siedi. Banchetta con la tua vita.

 

LOVE AFTER LOVE
Derek Walcott

The time will come
when, with elation
you will greet yourself arriving
at your own door, in your own mirror
and each will smile at the other’s welcome,

and say, sit here. Eat.
You will love again the stranger who was your self.
Give wine. Give bread. Give back your heart
to itself, to the stranger who has loved you
all your life, whom you ignored
for another, who knows you by heart.

Take down the love letters from the bookshelf,
the photographs, the desperate notes,
peel your own image from the mirror.
Sit. Feast on your life.

 

 

Presentazione del romanzo a Potenza

Giovedì 22 dicembre, alle 17:00, presento il mio romanzo d’esordio a Potenza.
Sarò molto felice di rispondere alle domande e alle curiosità di chi vorrà raggiungermi.

La scrittura è un muro a secco: parola di Neil Gaiman

[Suggerimento musicale per la lettura: Led Zeppelin: Stairway to Heaven]

“Uno scrittore professionista
è un dilettante
che non ha mai mollato”
Richard Bach


Siamo a Novembre, tempo di NaNoWriMo.
Come l’anno scorso, anche quest’anno mi sono buttata nella kermesse internazionale.

Rispetto all’anno scorso, però, il mio Guardiano della Soglia è meno agguerrito. Abbiamo imparato a conoscerci meglio, noi due.
Di tanto in tanto ci prova ancora a dissuadermi mordendomi, ma non ci faccio più tanto caso. Lo so che mi vuole bene: è come un cucciolo di drago che involontariamente mi graffia giocando.
Non è cattivo. È la sua natura.
Scrivere, è la mia.

In questo articolo, però, non voglio parlare del NaNo. 
Desidero parlare di scrittura, ed esattamente di un momento particolare della scrittura che in un altro articolo, mutuando un termine dal processo alchemico, ho chiamato “Opera al Nero“.
Avviene nel bel mezzo della prima stesura, quando oscillo tra portare a termine il romanzo e la voglia di gettare tutto ed emigrare in un altro Stato.

Qui di seguito riporto un consiglio, utilissimo quando mi trovo su quella sottile linea di confine, dato da uno degli autori che ne fornisce di migliori. 
Si tratta di Neil Gaiman.
Il pezzo originale l’ho trovato qui, sul sito del contest NaNoWriMo, e l’ho tradotto.
Anche lui è un Membro della Gilda delle Mani Inchiostrate, un veterano. Perciò vale la pena dargli ascolto.

Spero che non ci siano errori troppo vistosi nella traduzione di una lettera che, a mio avviso, coglie completamente non una, ma la difficoltà dello scrittore.
Io la trovo molto vera, ed è ciò che accade anche a me.
Leggerla mi conforta.
Mi auguro che funzioni così anche per te.


“Caro Autore NaNoWriMo,

ormai sei probabilmente pronto a rinunciare. È passato quel primo, splendido rapimento furioso quando ogni personaggio e idea sono nuovi e divertenti. Non sei ancora in quella epocale parabola discendente, quando parole e immagini capitombolano fuori dalla testa a volte più velocemente di quante puoi trattenerne sulla carta.

Sei nel mezzo, un po’ oltre il punto a metà strada. Il fascino è svanito, la magia è andata, la tua schiena fa male per il troppo digitare, la tua famiglia, amici ed e-mail casuali di conoscenti sono passate dall’essere di incoraggiamento o almeno di accettazione al lamentarsi che non ti vedono più – e che anche quando lo fanno – che sei preoccupato e per niente divertente.

Non sai perché hai iniziato il tuo romanzo, non ricordi più perché hai immaginato che qualcuno vorrebbe leggerlo, e sei abbastanza sicuro che anche se lo finisci non sarà valsa la pena, il tempo o l’energia, e ogni volta che ti fermi abbastanza a lungo da confrontarlo con la cosa che avevi in testa quando hai cominciato – uno scintillante, brillante, meraviglioso romanzo, in cui ogni parola sputa fuoco e brucia, un libro così buono o migliore del miglior libro che tu abbia mai letto – è così dolorosamente inadeguato che sei abbastanza sicuro che sarebbe un atto di misericordia semplicemente cancellare l’intera faccenda.

Benvenuto nel club.

È così che i romanzi vengono scritti.

Tu scrivi. Quella è la parte dura che nessuno vede. Scrivi nei giorni buoni e scrivi nei giorni schifosi. Come uno squalo, devi continuare a muoverti in avanti o muori. La scrittura può essere o no la tua salvezza; potrebbe o essere o no il tuo destino. Ma questo non importa. Ciò che conta in questo momento sono le parole, una dopo l’altra. Cercare la parola successiva. Scriverla. Ripetere. Ripetere. Ripetere.

Un muro di pietre a secco è una bella cosa quando vedi che delimita un campo nel bel mezzo del nulla, ma diventa ancora più impressionante quando ti rendi conto che è stato costruito senza malta, che il costruttore necessitava di scegliere ogni pietra ad incastro e inserirla. Scrivere è come costruire un muro. È una continua ricerca della parola che si adatta al testo, alla tua mente, alla pagina. Trama e carattere e metafora e stile, tutto questo diventa secondario alle parole. Il costruttore di parete erige la sua parete una pietra alla volta finché raggiunge il fondo del campo.

Se non lo costruisce non ci sarà. Così lui guarda in basso il suo mucchio di rocce, prende quella che meglio si adatta al suo scopo, e la inserisce.

La ricerca della parola non si ottiene facilmente, ma nessun altro scriverà il tuo romanzo per te.

L’ultimo romanzo che ho scritto (era i ragazzi di ANANSI, nel caso te lo stia chiedendo) quando ero a tre quarti del percorso, chiamai il mio agente. Le dissi quanto mi sentissi stupido a scrivere qualcosa che nessuno avrebbe voluto leggere mai, quanto inconsistenti fossero i personaggi, quanto inutile la trama.

Ho fortemente suggerito che ero pronto ad abbandonare questo libro e scrivere piuttosto qualcosa di diverso, o forse avrei potuto abbandonare il libro e intraprendere una nuova vita come giardiniere di giardini all’inglese, rapinatore di banche, cuoco o biologo marino. E invece di simpatizzare o concordare con me, o spingermi in avanti con un’ondata di entusiasmo — o anche litigare con me — disse semplicemente, sospettosamente allegra, “Oh, sei a quella parte del libro, vero?”

Ne fui scioccato. “Vuoi dire che l’ho già fatto prima?”

“Non ti ricordi?”

“Non proprio.”

“Oh sì,” ha detto. “Lo fai ogni volta che scrivi un romanzo. Ma fanno così anche tutti gli altri miei clienti”.

Non ero nemmeno unico nella mia disperazione.

Così misi giù il telefono e mi portai fino alla caffetteria in cui stavo scrivendo il libro, riempii la mia penna e continuai a scrivere.

Una parola dopo l’altra.

Questo è l’unico modo in cui i romanzi vengono scritti e, a meno di elfi che arrivano durante la notte e trasformano le tue note confuse in Capitolo Nove, è l’unico modo per farlo.

Quindi continua a perseverare. Scrivi un’altra parola e quindi un’altra.

Molto presto sarai nella parabola discendente, e non è escluso che presto sarai alla fine.

Buona Fortuna…

Neil Gaiman”


Buona scrittura a tutti, una parola dopo l’altra.

 

 

La distopia siamo “Noi”

[Suggerimento musicale per la lettura: Mad Max: Fury Road]

E la popolazione raddoppia, e raddoppia ancora, e continua a raddoppiare.
Sempre più velocemente.
La gente è una epidemia, un flagello che infesta il mondo.
Harry Harrison, “Largo! Largo!”

 

Come scrive Alberto Grandi, in un articolo riportato sul sito Wired e pubblicato in origine su Penne Matte, il genere distopico contemporaneo “manca” alcune occasioni di denuncia sociale.
I romanzi distopici contemporanei noti al grande pubblico non approfondiscono, non denunciano, non approfittano del successo per denunciare un pericolo nascosto già in potenza, come seme, all’interno dei nostri sistemi sociali.
Alberto cita viceversa Orwell, “1984” e Golding, “Il Signore delle mosche”, a esempio di distopici di denuncia sociale.

Ho letto l’articolo con molto interesse, e concordo con il principio di massima secondo il quale l’opera letteraria debba (almeno provare a) raggiungere il lettore a un certo livello di profondità. Credo tuttavia che la distopia classica sia un genere superato.

La distopia a cui si fa riferimento in quell’articolo, quella di denuncia, di allerta e previsione, quella che fa emergere le contraddizioni sociali presenti che potrebbero condurre a un universo indesiderato, ha avuto un valore in certi periodi storici. Oggi noi già ci troviamo in quel futuro da cui quegli scrittori ci mettevano in guardia.

La distopia è già la società in cui noi viviamo e gli autori distopici di oggi, più che prevedere il futuro, descrivono metaforicamente il presente.

La distopia è qui, nel mondo, in alcuni suoi tratti evidenti (l’isolamento dei social network, i temi della bioetica, il crollo dello Stato Sociale, la guerra globale permanente, i grandi flussi migratori verso l’Occidente) e nell’immaginario dei lettori.

Ma non è questo il motivo per cui tali temi, nelle tre opere citate da Alberto Grandi (“Divergent”, “Hunger games”, “Maze Runner”) non sono approfonditi, né esplorati, né posti a obiettivo principale del messaggio da trasmettere. In Maze Runner il tema della denuncia è completamente assente, negli altri presente, ma non è il focus, e qui concordo con Alberto, ma il motivo è una scelta commerciale: le opere citate sono degli young adult.
Infatti non tutta la distopia contemporanea, che pure non regge il confronto della propria capacità di previsione rispetto a quella passata, evita di denunciare socialmente: si pensi alla serie Black Mirror. Qui la denuncia è massima: le contraddizioni dell’era moderna si intersecano fra loro ed esasperano in una denuncia fortissima.

In altri termini, quello che secondo me è lo iato incolmabile fra distopia passata e presente non è la mancanza di denuncia, bensì la sostituzione della previsione con la descrizione. Tanto per fare un esempio, qualche tempo fa la testata “The Intercept”[1ha pubblicato un video dal titolo “Megacities: Urban Future, the emerging complexity” che sembra uscito da un’opera di fantasia. Invece, è parte del materiale didattico che la Joint Special Operation University del Pentagono distribuisce ai suoi allievi. In altre parole, è  la realizzazione molto vicina di una distopia reale, tangibile, che i militari statunitensi usano già per la loro formazione interna. È la costruzione di una società militarizzata e ottimizzata a gestire lo scenario tattico di una megalopoli moderna.

Come scrive in questo articolo per Tom’s Hardware Italia Valerio Porcu  “Il video inanella una serie di minacce terribili: reti criminali, infrastrutture sotto gli standard, tensioni etniche e religiose, povertà, bassifondi, fognature sovraccariche, una crescente massa di disoccupati e così via. Non mancano estesi labirinti sotterranei e aree con un proprio governo indipendente da quello ufficiale. Un contesto nel quale la minaccia informatica ha un ruolo centrale, con ‘gli hacker’ in grado di colpire infrastrutture sensibili dove e quando vogliono. Tutto concentrato in un fazzoletto di terra altamente popolato.”
E poi ancora “Un altro documento riporta invece come ‘l’esercito US è incapace di operare all’interno della megacittà’. Esiste infatti un programma chiamato Thunderdom Spiral, che dovrebbe servire appunto a trovare nuove idee per affrontare la questione.”
Un portavoce dell’esercito ha affermato che il video si basa su Megacities and The United States Army, che di fantasioso ha poco o nulla.
Inquinamento, crisi energetica, dittatura militare non sono scenari di fantasia.
La distopia è già in essere, ed è sotto gli occhi di tutti. È invisibile, e perciò tanto più pericolosa, perché a differenza di quanto scrivevano i romanzieri di inizio secolo, essa  non è totalizzante. Non c’è un nemico definito contro cui scagliarsi.
Il nemico è il sistema stesso.

Orwell metteva in guardia l’umanità dall’impoverimento del linguaggio, dal pensiero non articolato in forme corrette. La Neolingua consiste nell’eliminare parole dal vocabolario, nel ridurle, contrarle. Semplificarle.
La Neolingua non è forse il linguaggio da sms, l’abuso delle k, degli acronimi, degli slang e delle frasi-tormentone da hashtag? quante parole permette di scrivere Twitter?
L’uso di un vocabolario ristretto coincide con un pensiero ristretto. E, come in ogni distopia che si rispetti, una modalità di pensiero rattrappita è conditio sine qua non della manipolazione di chi quel pensiero lo mantiene ampio, attraverso un uso sapiente ma disonesto del linguaggio.

In altri termini, si dovrebbe cercare di superare la definizione della fantascienza distopica come letteratura di anticipazione: ai nostri giorni essa è, piuttosto, una cornice, quasi accessoria, entro la quale rappresentare i contenuti principali.
In questi sistemi dis-integrati, dove la maggioranza delle persone non è motivata ad agire in conformità alle aspettative connesse a un ruolo, le sfide che i personaggi affrontano sono il cuore della narrazione, e non mero pretesto per la descrizione di un mondo probabile.
Se poi essi riusciranno a maturare dal punto di vista psicologico e affettivo, evolvendo verso la promozione dell’integrazione sociale, o si muoveranno verso una conquista interiore del tutto personale e a-sociale, è scelta di ogni scrittore.
A differenza del anni in cui Orwell e Golding pubblicavano i loro manoscritti, adesso l’informazione è facilmente accessibile a tutto il mondo occidentale.
Basta saper cercare, cliccare, distinguere, filtrare.

Ma ne siamo davvero in grado?

Nel mare magnum della rete e nella pluralità delle informazioni, l’attendibilità della fonte dovrebbe essere un criterio imprescindibile.
Quasi mai rispettato.

Laddove Huxley ne “Il Mondo Nuovo” sosteneva che il potere sarebbe dovuto essere esercitato sì per l’eliminazione della libertà ma solamente quale mero strumento di garanzia per la felicità umana, Orwell sottolineava come chiunque eserciti il potere lo faccia solo per se stesso. La vera natura del potere è il potere: “Il fine della persecuzione è la persecuzione. Il fine della tortura è la tortura. Il fine del potere è il potere. Cominci a capirmi ora?”[2]

Erich Fromm, nel suo saggio “Fuga dalla libertà”[3] scrive che: “l’uomo d’oggi ha raggiunto la libertà, ma non riesce a usarla per realizzare completamente se stesso, anzi, la libertà sembra averlo reso fragile e impotente”. E poi ancora: “Pur avendogli portato indipendenza e razionalità, la libertà ha reso [l’essere umano] isolato e, pertanto, ansioso e impotente. Questo isolamento è intollerabile e l’alternativa che gli si presenta è la seguente: o sfuggire dal peso di questa libertà verso nuove dipendenze e sottomissioni, o progredire verso la piena realizzazione della libertà positiva che si fonda sull’unicità e l’individualità dell’uomo”
E fin qui, tutto bene, se non fosse che “libertà” è un termine abusato. Siamo davvero liberi quando scegliamo, pensiamo, agiamo? Quali condizionamenti determinano i molteplici aspetti della nostra personalità?
La risposta arriva al settimo capitolo, quando Fromm mette in guardia l’uomo dalla “illusione della libertà”. Lo sviluppo di una personalità individuale è ostacolato dal fatto che la coscienza dell’uomo moderno occidentale non è né governata da una autorità esterna, né da una interiorizzata, ma da quella che lui chiama “autorità anonima” che “ha assunto le sembianze del senso comune, della scienza, della sanità psichica, della normalità, dell’opinione pubblica. Non pretende nulla, se non ciò che è di per sé evidente.”

Le bufale condivise da migliaia di disinformati, i botta e risposta infiniti sui commenti di Facebook, i commenti scandalizzati ai finti articoli del giornale on line Lercio, le sentenze vomitate sotto i video di Youtube, i post virali di notizie scandalistiche, insomma: tutto il coarcevo di interazioni social, non sono forse fattispecie di quell’autorità anonima alla quale si riferisce Fromm?

È già lei che decide per noi.

Quale libertà è dunque possibile per un uomo del genere?
Quell’uomo, non è un personaggio di un’opera distopica.
Quell’uomo, siamo Noi.[4]

 


[1] The Intercept è un sito diretto dall’ex giornalista del Guardian Glenn Greenwald, noto per aver organizzato la pubblicazione dei documenti che Edward Snowden, collaboratore della National Security Agency, ha sottratto al governo degli Stati Uniti.

[2] George Orwell, 1984, Mondadori, 2002

[3]Erich Fromm, Fuga dalla libertà, Mondadori, 1994

[4] Evgenij Ivanovič Zamjatin, Noi, Lupetti, 2007

 

La dieta mediatica – o del perché non rispondo subito ai messaggi

[Suggerimento musicale per la lettura: Eddie Vedder – Society]

 

Niente ci appartiene, Lucilio,
solo il tempo è nostro.
Seneca, Lettere a Lucilio.

 
Mi reputo una persona estremamente socievole.
Mi piace il contatto sociale, ho il privilegio di contare tra le centinaia di buoni conoscenti un nutrito nugolo di amici straordinari, che valgono per me come una famiglia allargata.
Mi piace uscire, vedere gente, fare cose nuove.

Poi, c’è il rovescio della medaglia.

Capitano dei periodi in cui il blocco creativo mi investe e mi sento sterile. “Il pozzo” è vuoto.
Mi sento confusa, dormo male, i giorni si susseguono piatti e gli obiettivi che mi sono prefissata appena qualche tempo prima mi appaiono logorati, sfilacciati, consunti. Iniziano a ingiallire.
In quei momenti ho bisogno di ritrovare un centro, e rinnovare il patto implicito stretto con me stessa per riprendere la strada che ho deciso di percorrere.

Sì, tutto bello, ma come?

La risposta, per me, è la solitudine.
Quando tutto intorno e dentro di me è confusione e rumore, ho bisogno di chiudere la porta della mia anima, e fare silenzio.
In questa società in cui rimanere da soli a casa non è sufficiente per creare il vuoto, costantemente riempito da messaggeria istantanea e notifiche social, l’unico modo che conosco è fare una “dieta mediatica”.
Ogni due-tre mesi di abbuffate di informazioni, che ingolfano il quotidiano moderno e che spesso non aggiungono valore al mio tempo, faccio un mese (ma questa volta sta durando di più) di silenzio.

Uso i limiti. Alzo le barricate. Difendo la mia arte e la mia salute.

Niente facebook, twitter, you tube, istagram e notizie on line fino a sera. Imposto il cellulare sul “non disturbare” e disabilito le notifiche. Limito la mia presenza e disponibilità sul web al minimo indispensabile. La dieta è flessibile, e si adatta alle esigenze di ognuno.
Io mi collego soltanto mezz’ora al giorno, di solito dopo cena. Leggo qualche mail, controllo le notifiche, rispondo svogliatamente a qualche messaggio. Finita la mezz’ora, stacco la connessione e mi dedico ad altro.

Le persone che mi conoscono, in questi periodi di mia “assenza dal web” incrementano i messaggi allarmati: “che fine hai fatto”? “ci vediamo su skype”? “rispondimi appena puoi!” oppure “tutto bene”?
Ormai dal web passa la maggior parte del contatto sociale, e va bene, però a volte è troppo. E quando di una cosa, qualsiasi cosa, se ne ha in abbondanza, allora quella cosa perde di valore.
Perciò questa scelta mi aiuta anche a rendere merito alle cose importanti.
Riscopro il piacere di telefonare a un amico, sentirne la voce e approfondire un argomento. Di finire di leggere un romanzo in due giorni, fare un bagno lungo e uscire più spesso.

Raccolgo l’essenziale. Recupero concentrazione e voglia di fare. Le idee mi si schiariscono, riesco a udire di nuovo i miei pensieri.
Come al rientro dalle vacanze, in cui si è esagerato con il cibo perché “tanto sono in vacanza”, così questi periodi di depurazione dai social network e dalle notifiche sul cellulare e sul computer sono necessarie alla mia vita creativa.

Ma la dieta mediatica non basta.

Il silenzio che si produce dalla dieta mediatica non è privo di significato.
Sì, insomma: stare da soli non significa annoiarsi guardando fuori dalla finestra tutto il tempo. Significa fare spazio dentro di sé, per permettere alle cose più importanti di emergere in superficie. Fare silenzio tutt’intorno per permettere alla propria voce interiore di essere udita.
Per fare ciò, annoiarsi è il primo passo. Ma soltanto il primo.
Poi, serve qualcosa che aiuti a focalizzarsi su sé stessi.
Per me, è il diario.
A singhiozzi, ne tengo uno, dove scrivo qualsiasi cosa mi venga in mente.
Mi serve per rimettere a fuoco la direzione, ricordare a me stessa dove sto andando e perché, e soprattutto a riconnettermi con la parte di me più vera, che mi sostanzia. L’unica a me indispensabile.
Quando mi sento perduta, il diario è la mia àncora. Riparto da lì. E questo articolo è proprio il frutto di una manciata di riflessioni che ho scritto sul diario, a mano, in questi giorni.

Se provate la dieta mediatica anche voi fatemi sapere come procede, anche se qualcosa mi dice che andrà tutto bene.